07 Aprile 2024, 07:40
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Lo hanno chiamato di “Ripresa e Resilienza”, il Piano nazionale di risposta alla straordinaria crisi pandemica che doveva mettere in moto un profondo cambiamento dentro l’Europa. Invertendo la tendenza: da un’Europa dei vincoli e delle restrizioni sul Patto di Stabilità, all’Europa che decideva di reagire puntando a diminuire i divari. Quei divari riconosciuti da tutti come il vero argine alla ripresa.
Divari in cui l’Italia eccelleva nel panorama europeo e per questo è stata destinataria della più ampia dotazione. Non era un ‘premio’ ma l’attestazione di un’economia particolarmente gravata da divari territoriali, di genere e generazioni. Di un’economia che sarebbe stata frenata nella ripresa dalle sue stesse diseguaglianze.
Ma – di revisione, in revisione – si sono dimenticati di colmare i divari, finendo per considerare la dotazione straordinaria del Pnrr alla stregua di un ‘qualsiasi’ fondo europeo. Un vaso comunicante, in uno con i Fondi Europei e con il Fondo di sviluppo e coesione nazionale, da cui ‘attingere’ per realizzare le politiche nazionali. Senza nemmeno il cruccio di una programmazione partecipata. Tanto che ogni revisione solleva le proteste bipartisan dai territori.
Senza ricordarsi che a differenza dei fondi strutturali che sono “a fondo perduto” in questo caso la gran parte delle risorse è “a prestito”. E che quindi nella riprogrammazione bisogna far bene attenzione a creare quel volano di ritorno che serve a rimborsare le rate in prestito. Le revisioni hanno sinora operato tradendo proprio il significato dello stesso Piano europeo e l’accordo raggiunto durante il difficile negoziato che portò ad assegnare all’Italia oltre 230 miliardi. In ragione proprio dell’entità dei suoi ritardi.
Cos’è rimasto di quell’ambizioso Piano basato prima di tutto su grandi riforme e su risultati concreti da raggiungere? Dalle relazioni del Governo e dall’esito delle Cabine di regia non vi è traccia di una verifica in itinere del conseguimento del 40% di risorse investite per lo sviluppo del Sud o di incremento di occupazione femminile e giovanile a cui doveva puntare il Pnrr. Ma non vi è nemmeno più una programmazione che guarda a realizzare le due importanti transizioni – digitale ed ecologica. Solo un elenco di misure che entrano ed uno di misure ‘eliminate’ dal Piano. Senza alcuna giustificazione su come questi ‘spostamenti’ contribuiscano e motivano la realizzazione delle due transizioni ritenute in pieno negoziato esiziali per la ripresa e la riduzione dei divari (peraltro in aumento secondo le relazioni Svimez ed Istat).
Tutto rimosso? Si è tornati a considerare l’Europa solo come un’astratta entità da usare come bancomat o a cui scaricare le colpe per le conseguenze di un deficit pubblico ai limiti della sostenibilità, figlio di politiche pubbliche miopi che non hanno saputo innescare concreti processi di sviluppo. Di politiche che non hanno puntato su Sud, Donne e Giovani proprio come leva di ripresa e crescita. E adesso, in piena campagna elettorale, a considerarla terra di conquista, proponendo Mister Pnrr italiano Fitto dato come possibile componente del prossimo esecutivo europeo.
Eppure le risorse del PNRR non erano state messe a disposizione dall’Europa per ‘premiare’ la performance non proprio esaltante dell’Italia nell’uso dei fondi europei, ma per incentivare le riforme strutturali necessarie a garantire che nuove straordinarie risorse, addizionali a quelle che già compongono i fondi strutturali europei, non venissero sprecate ma anzi permettessero lo sviluppo e la crescita inclusiva e ridessero centralità nell’agenda di sviluppo del Paese al recupero dei divari sociali ed economici.
Per questo il Pnrr dell’Europa conteneva indicazioni precise su come procedere. Le regole del RecoveryFund, oggetto di una lunga e non facile trattativa tra stati rigoristi, stati frugali, e stati meno credibili nell’efficienza ed efficacia nella spesa europea, hanno anteposto le riforme alla spesa proprio puntando a costruire la ‘nuova economia’ post-pandemia, ovvero modelli di economia più sostenibile e di società più equa e per questo più “resilienti”. In grado cioè di costruire un sistema di resistenza agli shock finanziari e porsi sul sistema mondiale in assetto competitivo.
Verde, digitale, sostenibilità. Occupazione giovanile e pari opportunità. Innovazione ed inclusione. Cittadinanza attiva e democrazia digitale. Rilancio e competitività. Riduzione dei divari. E soprattutto Riforme strutturali. Questo dovevano significare le due R – ripresa e resilienza – nell’acronimo del Pnrr. L’occasione che ci offriva l’Europa era veramente straordinaria: una grande stagione di riforme per superare l’incapacità di avere una visione che attraversi le generazioni, che punti veramente a costruire piani con obiettivi di cambiamento profondi, duraturi e rendicontabili a fronte invece di una moltitudine di progetti a corto raggio mediaticamente appetibili.
La scelta tra costruire le fondamenta per una Next Generation oppure la raccolta del consenso a breve? Il futuro oppure proseguire sulla strada dei sussidi e degli incentivi a pioggia che sono, e lo sappiamo tutti, il vero macigno alla ripresa? L’antiripresa per definizione. La spesa in sé non garantisce la ripresa. La generatività delle risorse europee, ovvero la capacità di generare effettivo sviluppo, passa dalla capacità di costruire alleanze di scopo intorno ad obiettivi radicali, qualificanti e misurabili in termini di buona occupazione e realizzazione delle infrastrutture capaci di mobilitare economia.
Doveva essere il Pnrr l’occasione irripetibile per cambiare. Ma a leggere anche l’ultimo decreto del Governo e le relazioni della Corte dei Conti sorge accorata una domanda: ma davvero l’unica cosa in cui restiamo resilienti è negli errori?
*l’autrice è responsabile Pnrr del Pd Sicilia
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07 Aprile 2024, 07:40