Trattativa, l’inchiesta si è svuotata| Ma del processo che ne facciamo?

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27 Maggio 2016, 06:00

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Prologo. Quando stramazzò sul marciapiede, colpito a morte da due colpi di fucile a canne mozze, Giacomo Ammirata, 62 anni, stringeva in pugno una manciata di lupini, conditi in un brodo stretto di aglio e prezzemolo, simbolo di amore e fecondità. Un segno del cielo, avrebbero scritto il giorno dopo i giornali. Perché Giacomo Ammirata, assassinato in via Torremuzza, la fecondità se la portava addosso, venerata ed esibita come un ex voto. Contava diciotto figli e alla Kalsa lo chiamavano “u masculiddu”, il maschietto. Il diminutivo non era stato scelto a caso: nel chiacchiericcio del quartiere serviva per ammiccare a un sottinteso medagliere di tradimenti e voluttà.

Giacomo Ammirata, però, altro non era che un dannato della carne. O delle corna. Era andato a cercarsi un guaio persino con l’ex moglie di don Paolino Cuticchio, boss del contrabbando. Glielo aveva fatto sapere tante volte, don Paolino, che quello era pascolo abusivo. Ma “u masculiddu” era sordo: non sentiva e non voleva sentire. Fino a quando il povero boss non ci vide più dagli occhi. “Quel cornuto”, sentenziò pubblicamente, “vuole fare di me un cornuto”. E lasciò ai picciotti ogni conclusione.

Un mese dopo, in via Torremuzza, davanti al cadavere di Giacomo Ammirata, chi sapeva di quel precedente? Non ne sapeva nulla Costantino Martorana d’Ippolito, medico legale, che in attesa del magistrato di turno, aveva finalmente trovato uno sgabello a tre piedi sul quale sedersi e restarsene muto e sonnacchioso. Non ne sapeva nulla il commissario Tonino De Luca, della “omicidi”. E non ne sapevano nulla nemmeno i diciassette figli, interrogati dal maresciallo della Squadra mobile, Egidio Coppolino. “Mio padre, dei suoi problemi, parlava solo con Totuccio”, rispondevano uno dopo l’altro. Non restava che ascoltare Totuccio, 37 anni, il più grande dei diciotto fratelli e già affermato rigattiere di piazza Ingastone.

“Hai un’idea di chi ha ucciso tuo padre?” – gli chiede a bruciapelo il maresciallo Coppolino. “Egregio maresciallo, lei mi vuole provocare: se io sapessi chi è quel figlio di buttana che ha fatto questo regalo a mio padre, pensa che starei qui a dirlo alla polizia?”. “E perché no?”. “Perché lo avrei già ammazzato io. Con queste mani”. E così dicendo, si sdirupò sul marciapiede per meglio piangere sul cadavere del padre.

Svolgimento. I masculi, si sa, sono quelli che amano mostrare i muscoli e che difficilmente ammettono di avere perso una partita. I masculi, si sa, sono quelli che, non ti daranno mai la soddisfazione di riconoscere un errore, meno che meno uno sfascio o una catastrofe. I masculi, insomma, sono quelli che non si rassegnano. Nemmeno davanti all’evidenza. Prendete la pattuglia dei duri e puri che da oltre vent’anni presidiano il dorato mondo dell’antimafia. Hanno davanti agli occhi la carcassa di quella che doveva essere la nave ammiraglia del giustizialismo e vogliono convincerti del fatto che non è successo nulla, che la corazzata della Trattativa è viva e vegeta, sempre pronta a solcare nuovi mari e a sfidare nuovi nemici. Constatano che il dibattimento imbarca acqua da tutte le parti e se ne stanno dritti e immobili, con i loro pennacchi, manco fossero gli eroi di una invincibile armata. Vedono con i loro occhi che il grande relitto sprofonda, giorno dopo giorno, nelle acque molli dell’inconcludenza e si ostinano a non chiamare i soccorsi. Ricordate la Concordia all’Isola del Giglio nei giorni successivi al naufragio? Ecco: il maxiprocesso di Palermo, quello che avrebbe dovuto disvelare le trame oscure tra uomini delle istituzioni e i boss di Cosa nostra, non si discosta molto da quella desolata immagine. L’inchiesta, che già non aveva un movente – perché la mafia delle stragi è stata sconfitta e nessuno l’ha salvata – ha già ricevuto due colpi mortali:  il primo dall’assoluzione, con rito abbreviato, dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, uno degli undici imputati; il secondo, dalla sentenza che ha restituito l’onore all’ex generale dei carabinieri Mario Mori, ritenuto l’architrave dell’intrigo.

A lui i procuratori avevano riservato l’antipasto di un processo propedeutico: e, per meglio consolidare la madre di tutte le inchieste, lo avevano trascinato davanti a un tribunale con l’imputazione di avere favorito, proprio in virtù del patto scellerato con la mafia, la latitanza di Bernardo Provenzano, il corleonese che, con Totò Riina, aveva pilotato la stagione delle stragi. Ma i masculi della Trattativa, si sa, non disarmano mai: non l’hanno fatto quando si è scoperto che Massimo Ciancimino, il testimone chiave dell’accusa, era un pataccaro; e non lo fanno ora che le sentenze su Mori e Mannino hanno di fatto svuotato il quadro accusatorio di ogni credibilità. Anzi, tornano a mostrare i muscoli. Lo dimostra il calendario delle udienze: a metà giugno l’intera Corte di Assise – con il seguito di avvocati, pubblici ministeri e cancellieri; e con il gran daffare di albergatori e agenzie di viaggio  – si trasferirà a Roma nella speranza di cogliere finalmente, dentro i palazzi del potere, una briciola di verità.

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Purtroppo non sarà facile. La trasferta nasce dalla necessità di ascoltare quei testimoni che, per le loro condizioni fisiche, non sono in grado di raggiungere Palermo. Tra questi c’è un personaggio di altissimo profilo, indicato nella lista degli interrogatori con il numero 79, che risponde al nome di Carlo Azeglio Ciampi. Un nome familiare a tutti gli italiani: fu governatore della Banca d’Italia, poi ministro del Tesoro, poi presidente del Consiglio e infine presidente della Repubblica. Più che un uomo di potere, un’istituzione. Ma c’è un ma. Il testimone Ciampi, richiesto con tanta forza dai rappresentanti dell’accusa, ha già compiuto 96 anni: avrà la forza e la lucidità di rispondere alle domande dei pm e a quelle dei difensori? La valutazione spetterà al presidente della Corte, Alfredo Montalto, che da tre anni governa l’aula con i nervi saldi di chi deve, per legge, tenere a galla un processo, anche se il processo non desta più la stessa attenzione e le stesse curiosità delle prime udienze. Ma alcune domande, al punto in cui siamo, bisogna pur farle, a cominciare da quelle che, ai raffinatissimi palati della giurisprudenza, possono apparire come le più sgradevoli, le più sfrontate, le più plebee.

Una prima questione riguarda i costi, e non solo quelli finanziari che pure sono alti, altissimi. Perché un costo non irrilevante di questo processo è, per esempio, la durata: in tre anni la Corte non è riuscita nemmeno ad ascoltare tutti i centosessanta testimoni inseriti nell’elenco. Con l’aggravante che gli ultimi, in ordine di tempo, sono stati convocati nell’aula bunker con il recondito obiettivo, poi miseramente fallito, di puntellare l’attendibilità di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, sotto processo a Bologna e a Caltanissetta per calunnia nei confronti di persone, come l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, che con le storiacce di mafia non hanno avuto nulla a che vedere. Se si proseguirà col ritmo di questi tre anni – ni muy atràs ni muy adelante: era questo il tempo suggerito per i processi dal Santo Inquisitore di Toledo – ne avremo a occhio e croce fino al 2018, quando il processone si concluderà quasi certamente con una sentenza di assoluzione. Gli imputati tireranno, come è ovvio, un sospiro di sollievo: dopo anni di gogna e tribolazioni, si sentiranno certo risollevati per lo scampato pericolo ma difficilmente troveranno un magistrato disposto a riconoscere che la Trattativa, più che un processo, è stata soprattutto una rappresentazione teatrale. Anzi, per essere più precisi, uno scolastico esempio di drammaturgia giudiziaria.

Proviamo a rivedere le scene principali: c’è il procuratore Antonio Ingroia che si mette a capo di un esercito dei buoni e promette come Davide di infilzare il tenebroso Golia, custode di quelle stanze del potere dove “si nasconde una verità indicibile”; c’è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, accerchiato da domande prive di senso e aggredito già da un’intercettazione telefonica, che si dimena come un gigante in trappola e invoca, contro l’oltraggio, una parola di giustizia dalla Corte costituzionale; c’è, Loris D’Ambrosio, gran consigliere del Quirinale, al quale tocca il ruolo tragico dell’innocente sacrificato sull’altare della fedeltà; e c’è soprattutto il coro dei giornali e dei talk-show che parteggia, fino allo schiamazzo, per Davide: lo inseguono per terra e per mare, fino al Guatemala, e gli riversano addosso un diluvio di elogi e di interviste; lo additano alle folle come luminoso esempio di coraggio civile e lo portano a spalla per mesi come leader di una rivoluzione prossima ventura; e poi, quando ritengono che i tempi siano maturi, lo spingono a raccogliere il frutto della campagna di stampa e a conquistare, con una sua lista elettorale, la maggioranza necessaria per il governo del paese.

Certo, l’uscita di scena, non proprio gloriosa, del Nostro Eroe – passato in un battibaleno dalla magistratura alla politica, dalla “sublime normalità dei cieli” alla terrena pratica del sottogoverno, dallo scontro con Giorgio Napolitano all’abbraccio con Rosario Crocetta – ha comportato una caduta della tensione creata con tanta fatica attorno all’inchiesta e oggi sulla Trattativa è quasi calato il sipario: le udienze vanno avanti con stanchezza, avvocati e giudici popolari cominciano ad accusare atroci momenti di noia, i giornali ne hanno piene le tasche e i giuristi più consapevoli non esitano a dichiarare pubblicamente che l’impalcatura costruita dall’accusa altro non è che un azzardo. Ma del processo che ne facciamo?

Nei codici non c’è un articolo che assegni al presidente Montalto la facoltà di chiudere bottega e di mandare tutti a casa, inquisiti e inquisitori. E non è neppure ipotizzabile, figurarsi, che uno dei pubblici ministeri si alzi all’improvviso in aula e dichiari davanti alla Corte di ritenere inutile, alla luce delle sopravvenienze, il prosieguo del dibattimento. Non resta dunque che continuare, anche se di malavoglia. Con una sola speranza: che, prima o poi, qualcuno – un giudice della Cassazione, un ministro Guardasigilli, un Consiglio superiore della magistratura, una commissione parlamentare d’inchiesta – spieghi ai tanti poveracci che pagano le tasse se i soldi, impiegati dalla procura di Palermo nella costruzione di una così ardita architettura giudiziaria, siano stati spesi bene o male. Perché, tra tante volatili e fumose incertezze, una cosa è certa: che i masculi dell’antimafia, con la Trattativa, hanno fatto finora più piazza che giustizia.

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27 Maggio 2016, 06:00

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