17 Luglio 2013, 10:42
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PALERMO – E venne il giorno della sentenza. Dopo oltre cento udienze, cinque anni di dibattimento, novanta testi tra accusa e difesa. I giudici del Tribunale presieduta da Mario Fontana sono già in camera di consiglio. Alle 17 e 30 di oggi conosceremo il destino processuale del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995.
Sul loro capo pesa una richiesta di condanna a 9 anni per il primo e a sei anni e mezzo per il secondo avanzata dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, e dai pubblici ministeri Antonino Di Matteo, Francesco del Bene e Roberto Tartaglia. A fare da contraltare la tesi difensiva degli avvocati Enzo Musco e Basilio Milio secondo cui, i due imputati vanno assolti con la formula piena perché “il fatto non sussiste”.
Un processo che nel frattempo si è trasformato in un’anticipazione, per altro sostanziosa e sostanziale, di un altro altro dibattimento, quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. La mancata cattura del padrino corleonese sarebbe stata, infatti, una tappa del presunto e scellerato patto che pezzi dello Stato, dal ’92, avrebbero stretto con Cosa nostra.
Mario Mori e mauro Obinu: i pubblici ministeri li hanno definiti “servitori infedeli dello Stato”, traditori della Costituzione e dell’Arma dei carabinieri. “Non è stato facile – disse nella requisitoria il pm Di Matteo – accusare ufficiali con i quali avevamo lavorato, non è agevole affrontare il rischio che il processo sia inteso come un atto d’accusa a tutto il Ros dei carabinieri. Ma gli elementi a carico degli imputati sono gravi, precisi e convergenti al di là di ogni ragionevole dubbio”. E portano diritto, secondo l’accusa, alla conclusione che Mori e Obinu, “contribuirono ad adottare una politica criminale sciagurata che portò alla mediazione e finì per favorire l’ala ritenuta più moderata di Cosa nostra, quella di Bernardo Provenzano, nella consapevolezza che questi avrebbe scelto la linea del basso profilo e della normalizzazione e messo fine alla strategia stragista”.
Il processo ruota attorno al mancato blitz che avrebbe potuto portare alla cattura di Provenzano il 31 ottobre 1995 nelle campagne di Mezzojuso sulla base delle confidenze di Luigi Ilardo. Ed invece l’arresto sarebbe stato bloccato dagli allora vertici del Ros che al capomafia di Corleone avevano garantito l’impunità al termine della trattativa mediata da Vito Ciancimino. Un processo che, secondo, l’accusa ha fatto emergere imbarazzanti “reticenze” di autorevoli rappresentanti istituzionali. A cominciare dalle false dichiarazioni che l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, avrebbe reso ai pm quando al processo Mori disse di non avere discusso con l’allora Guardasigilli Claudio martelli dei contatti avviati fra il Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo.
Secondo la Procura, il patto Stato-mafia sarebbe passato attraverso la sostituzione di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino al vertice del Viminale e l’avvicendamento al Dap. Due mosse politiche che, per l’accusa, avrebbero allontanato dal ministero dell’Interno un personaggio scomodo per la mafia e messo alla guida dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria due personaggi, Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio, che avrebbero sposato la linea dell’ammorbidimento del carcere duro per i boss. Un tema, quello del 41 bis, inserito da Totò Riina nel papello, l’elenco che, a giugno del 1992, il capo della Cupola di Cosa nostra avrebbe fatto avere allo Stato in cambio della fine della stagione stragista.
Una ricostruzione che gli imputati hanno sempre respinto con fermezza. “L’accusa rivolta ai miei ufficiali e a me di avere perseguito obiettivi di politica criminale è offensiva, in quanto gratuitamente espressa – disse Mori nel corso delle sue lunghe dichiarazioni spontanee -. Tale grave accusa, infatti, pronunciata in un’aula di giustizia, senza che sia sostenuta da concreti elementi di riscontro, si configura semplicemente come un calunnioso espediente dialettico, mirato a fare prevalere comunque una tesi di parte. E che questa affermazione sia infondata e di parte io non lo affermo solamente, ma lo dimostrerò con le mie dichiarazioni”.
Sulla stessa lunghezza d’onda il colonnello Obinu: “Mi sembrano davvero assurdi i sillogismi e le deduzioni che legano, non si capisce in che modo, il mio operato alla protezione di latitanti come Bernardo Provenzano. Alle caustiche espressioni usate contro di me nella requisitoria non voglio replicare”. Lo ha detto il colonnello dei carabinieri Mauro Obinu nel corso delle dichiarazioni spontanee nel processo che lo vede imputato per favoreggiamento aggravato. “Nessuna ragione di Stato – ha spiegato – ha mai sfiorato le mie condotte professionali. Ho sempre lavorato con altissimo rispetto delle istituzioni e al massimo delle mie capacità. Non sono mai stato scudiero né di Mori né di altri”.
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17 Luglio 2013, 10:42