16 Aprile 2018, 05:43
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PALERMO – Cinque anni dopo il rinvio a giudizio la Corte di assise si ritira in camera di consiglio. Pochi giorni ancora e si conoscerà l’esito del processo sulla trattativa Stato-mafia. Il reato contestato è “attentato mediante violenza o minaccia a un corpo politico, giudiziario o amministrativo dello Stato, aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra”.
Le richieste di pena sono state pesantissime: quindici anni per il generale Mario Mori, 12 per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno, 12 per Marcello Dell’Utri, 6 per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (è imputato per falsa testimonianza), 16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Gaetano Cinà.
Per Massimo Ciancimino, teste principale e imputato, sono stati chiesti 5 anni per avere calunniato l’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro, e il non doversi procedere per prescrizione per il concorso esterno in associazione mafiosa.
I pubblici ministeri Vittorio Teresi, Antonio Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene non hanno dubbi: a cavallo della stragi del ’92 ci fu patto scellerato fra i boss e i rappresentati delle istituzioni. Non sarà facile per la pubblica accusa superare alcuni ostacoli che appaiono insormontabili. E cioè l’assoluzione definitiva che ha ottenuto il generale Mori per il mancato arresto di Bernardo Provenzano (assolto lo è stato pure la mancata perquisizione del covo di Totò Riina) e quella in primo grado di Calogero Mannino al processo stralcio sulla Trattativa.
L’indagine approda alla fase processuale nel luglio del 2012 quando gli atti – 120 faldoni – vengono trasmessi dalla Procura al giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini. Il rinvio a giudizio dei dieci imputati fu deciso il 7 marzo 2013.
La tesi dei pm è che, dopo l’esito funesto per i boss del maxi processo e l’omicidio dell’eurodeputato e collega di partito nella Dc Salvo Lima, Mannino aveva capito di essere la successiva vittima della mafia. A quel punto avrebbe tentato di intraprendere un dialogo con il boss sfruttando i suoi contatti con i carabinieri del Ros. A partire dal ’91 lo Stato, con Claudio Martelli al ministero della Giustizia e Giovanni Falcone agli Affari Penali, cominciò la sua battaglia a Cosa nostra a colpi di norme pesantissime. La mafia capisce che il vento è cambiato e decide, dopo una serie di riunioni, di “eliminare i rami secchi”, avrebbe detto Riina nel corso di un summit. Cioè di eliminare i politici che prima avevano dato garanzie, poi non le avevano mantenute.
Fantasie, solo fantasie, sostengono le difese. La Trattativa non è esistita. I carabinieri si mossero per tentare di stanare i boss grazie alla collaborazione di don Vito Ciancimino. Lo Stato ha vinto la sua battaglia, tutti i padrini sono stati arrestati, compresi Totò Riina e Bernardo Provenzano. Riina è l’uomo del ricatto, del papello con le richieste per fermare le stragi. Poi, però, sarebbe stato venduto da Provenzano ai carabinieri.
Sono successe tante cose nel corso del processo. A cominciare dalla morte dei due capimafia corleonesi, sepolti al 41 bis, il regime del carcere duro che li spaventava al tal punto da farne uno dei punti centrali del papello. C’è stato il conflitto istituzionale per l’inutilizzabilità delle telefonate di Giorgio Napolitano (l’accusa sosteneva che fossero ininfluenti, ma si è battuta per la trascrizione tanto da rendere necessario l’intervento della Corte Costituzionale che gli diede torto). Ed ancora l’arresto di Massimo Ciancimino, il testimone chiave che ha fatto di tutto per picconare la propria credibilità con le bugie; la scelta di Antonio Ingroia, il padre dell’inchiesta, di correre in politica.
L’elenco degli accadimenti degni di nota potrebbe proseguire. Da oggi la Corte presieduta da Alfredo Montalto entra in camera di consiglio nel bunker del carcere Pagliarelli. Probabilmente ci vorranno giorni per decidere.
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16 Aprile 2018, 05:43