Provenzano, il 41 bis e la morte | Il confine tra giustizia e vendetta

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13 Luglio 2016, 18:21

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PALERMO – “Provenzano per me è morto quattro anni fa, dopo la caduta nel carcere di Parma e l’intervento che ha subito. Da allora il 41 bis è stato applicato ai parenti e non a lui”, dice il legale del capomafia corleonese, Rosalba Di Gregorio.

Una frase, la sua, che sposta l’attenzione sul terreno minato del diritto dei familiari del capomafia a nutrire e coltivare sentimenti in una vicenda dove, secondo un’opinione diffusa, gli unici sentimenti da garantire sono quelli delle vittime di Provenzano. Il capomafia nella sua vita ha seminato morte e dolore. Il dolore a cui ha ancorato l’esistenza dei familiari delle centinaia di persone che ha ammazzato e fatto ammazzare.

La moglie e i figli di Provenzano, hanno condotto una lunga e infruttuosa battaglia contro il 41 bis, cercando di demarcare il confine fra la giustizia e la vendetta.Tutti i processi in cui era ancora imputato, tra cui quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, erano stati sospesi perché il boss, sottoposto a più perizie mediche, era stato ritenuto incapace di partecipare. Grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento. 

Sul 41 bis applicato a Provenzano c’è un commento, postato su un social network, dal magistrato della Procura generale, Domenico Gozzo: “Mi sento pure di dire che lo Stato italiano avrebbe potuto, in questi ultimi anni, marcare la propria differenza. Far sentire, nel momento in cui Provenzano “non ci stava più con la testa” , la differenza tra uno stato di diritto, che applica le norme, anche nei confronti di un mafioso – e dunque, se uno non ragiona e non comunica, non può essere pericoloso – e le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Ed invece si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la Giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti”.

Quanto è sottile il confine tra giustizia e vendetta? Già, la vendetta di Stato, termine utilizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane nel commentare il decesso del feroce boss corleonese dopo anni di agonia al 41 bis. “La morte di Bernardo Provenzano, nelle condizioni in cui lo Stato ha voluto avvenisse, rappresenta solo ed esclusivamente la sconfitta del diritto in un Paese che, pur di dimostrarsi ‘forte’, ricorre a ingiustificati e ingiustificabili provvedimenti simbolici che assumono, poi il valore di una vendetta” – si legge nel documento dell’Ucpi che ricorda come il 4 aprile scorso l’associazione aveva denunciato il provvedimento, “contro natura e contra legem, adottato dal Ministro della Giustizia, su proposta della Direzione Nazionale Antimafia, con il quale era stato prorogato a Provenzano il regime ex articolo 41 bis. Bernardo Provenzano era da tempo sofferente, come accertato in sede giudiziaria, per patologie plurime e invalidanti che comportavano un grave decadimento cognitivo e motorio, anche per i postumi di vari interventi chirurgici – prosegue l’Ucpi – Era, da quasi due anni, ricoverato presso il reparto detenuti dell’Ospedale San Paolo di Milano, in stato quasi vegetativo. Nonostante l”uomo’ non potesse, dunque, definirsi più persona, egli, secondo il Ministro della Giustizia era ancora individuo dalla ‘elevata pericolosità’. La proroga del regime di detenzione al carcere duro, dunque – prosegue l’associazione – non poteva essere finalizzata ad evitare contatti tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza, né, nel caso concreto, poteva servire ad esigenze investigative , che pur non sarebbero consentite, miranti a “convincere” il destinatario a collaborare. Le accertate gravi patologie, d’altro canto, non avevano mai indotto il Tribunale di Sorveglianza a sospendere la pena come richiesto dai legali di Provenzano che hanno osservato, in ragione di ciò,come ormai il 41-bis fosse stato applicato ai familiari dello stesso”.

Alla luce del quadro clinico le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, titolari dell’accusa negli ultimi procedimenti a carico del boss, alla fine, avevano dato parere favorevole alla revoca del 41 bis. Mentre si era opposta la Direzione Nazionale Antimafia. Il tribunale di sorveglianza di Roma decise che doveva restare al carcere duro perché “in un attimo di lucidità” avrebbe potuto ancora “impartire direttive criminali”.

Due giorni fa, è arrivato il nuovo no del Tribunale di sorveglianza di Milano. I suoi “trascorsi criminali” e il “valore simbolico del suo percorso criminale” lo espongono, “qualora non adeguatamente protetto nella persona” e “trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica”, ad eventuali ‘rappresaglie connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso”, di cui è stato “capo fino al suo arresto”. È uno dei motivi per cui il giudice ha detto no alla scarcerazione del boss morto oggi. Ed ancora, scrive il magistrato di milanese Mariolina Panasiti: “Nessuna condizione di contrasto con il senso di umanità si realizza con la permanenza” di Provenzano, nel reparto per i detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano. Reparto dove oggi è morto e dove il boss è stato per 27 mesi “semplicemente degente, assistito al meglio dal personale medico e infermieristico”.

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Dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria fanno sapere che “i sanitari dell’ospedale di Milano, d’accordo con il Dap, hanno avvertito immediatamente i familiari che sono arrivati e hanno potuto usufruire di un incontro col loro congiunto. Il regime di 41 bis in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato detenuto – Parma e Milano – ha ricevuto cure puntuali ed efficaci”.

Una dichiarazione quella di Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Ministero della Giustizia, che prova ad archiviare la questione del 41 bis. Così come l’autopsia disposta dalla Procura di Milano servirà per fugare, così è stato detto, qualsiasi dubbio sulle cure ricevute all’ospedale San Paolo e sulle cause della morte legate all’aggravarsi della malattia che lo aveva colpito ormai da tempo.

Il figlio Angelo (“Nominato curatore speciale del padre incapace. Questo perché sia chiaro in che condizioni si trovava”, spiega l’avvocato Di Gregorio) potrà nominare un proprio consulente che assisterà all’esame autoptico. Angelo è il primogenito di Bernardo Provenzano. Quando arrestarono il padre, accanto alla macchina per scrivere, nel covo di Montagna dei cavalli, c’era una sua lettera. Di Angelo e Francesco Paolo si è sempre saputo poco. Nella primavera del 1992, all’improvviso riapparvero a Corleone assieme alla madre, Saveria Palazzolo. Il padre li ha tenuti lontano dalle logiche mafiose.

Impossibile evitare il confronto con Totò Riina, l’uomo che gli ha ceduto lo scettro una volta finito in cella. I figli del capo dei capi non solo non sono rimasti fuori dalle dinamiche mafiose, ma ci sono finiti dentro fino al collo. Giovanni è stato condannato all’ergastolo per omicidio, mentre Giuseppe Salvatore ha scontato una condanna per mafia.

Angelo e Francesco Paolo Provenzano hanno una avuto storia diversa. Il padre sanguinario ha insegnato loro a essere garbati ed educati. Persino con i giornalisti che, era il consiglio che dispensava in una lettera a Paolo, bisognava allontanare senza alzare la voce.

Comune destino giudiziario per i padri, differente per i figli. Provenzano e Riina senior sono stati sepolti dagli ergastoli. I figli del capo dei capi hanno seguito le orme criminali del padre. Giovanni in carcere ci resterà per sempre, colpevole di quattro omicidi, mentre Salvuccio – l’uomo della chiacchieratissima intervista a Porta a Porta – di anni ne ha scontati otto e mezzo per associazione mafiosa. Angelo e Francesco Paolo Provenzano, invece, hanno la fedina penale immacolata. Mai stati processati. Angelo, oggi quarantenne, è stato ingaggiato da un tour operator per parlare di mafia. Francesco Paolo, 34 anni, si è laureato in Lettere. Aveva studiato in Germania, ottenendo una borsa di studio. Poi, quando si seppe di chi era figlio, fu costretto a lasciare tutto e a rientrare in Sicilia.

Che Binu abbia voluto tenere i figli lontano da Cosa nostra si intuisce leggendo i passaggi di alcune recenti intercettazioni. Antonino Di Marco, considerato un mafioso di Palazzo Adriano, raccontava a Carmelo Gariffo, nipote di Bernardo Provenzano, di avere tentato più volte di avvicinare Angelo. Voleva che facesse pesare il suo cognome per impedire ad altri di fare la voce grossa. Gariffo gli spiegava che i suoi cugini, Angelo in testa, erano rimasti fuori dai giochi “volutamente perché mentre c’è stato mio zio presente, i suoi figli era giusto che si stavano, a posto loro, e devono stare a posto, perché basta uno non c’è bisogno di cento”. Bastava la presenza di Gariffo e di Rosario Lo Bue, considerato il capomafia di Corleone dove si vive sempre nel mito dei vecchi padrini.

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13 Luglio 2016, 18:21

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