28 Ottobre 2018, 16:11
3 min di lettura
La Corte europea dei diritti umani non ha messo in discussione la legislazione antimafia dello Stato italiano, nemmeno ha ritenuto che la detenzione del ricorrente ledesse i suoi diritti. No, i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia perché decise di continuare ad applicare il regime del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 fino alla morte del boss mafioso avvenuta 4 mesi dopo, violando il diritto del detenuto, a causa delle sue condizioni fisiche e cerebrali “estremamente deteriorate”, a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti.
In realtà, Provenzano fu assistito e curato in ottime strutture sanitarie, forse meglio di un qualunque cittadino e comunque non può mai essere messo in discussione strumentalmente il mantenimento del sistema del 41bis, essenziale nel complessivo contesto normativo di contrasto alle mafie. L’assicurazione in proposito espressa dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è stata netta e da apprezzare, però non basta. Il punto su cui riflettere è infatti diverso.
Uno Stato certamente non è più credibile se lascia al regime carcerario duro un orribile boss mafioso macchiatosi di terribili delitti, si chiami pure Bernardo Provenzano, ma non in grado ormai di intendere e di volere. Uno Stato è credibile, e si deve preoccupare di esserlo desecretando atti ove necessario, se si impegna a togliere finalmente il velo sporco di sangue su anni e anni di depistaggi, complicità, collusioni e trattative scellerate con Cosa Nostra ad opera di uomini delle istituzioni. Anzi, l’accanimento tra l’altro illogico – perché la ratio legis del 41bis è quella di impedire a un riconosciuto capo di comandare anche da dietro le sbarre, attività inibita a Provenzano per la sua salute mentale oltremodo compromessa – sembrerebbe voglia ostentare un rigore morale prima ancora che legale per tacitare la coscienza dinanzi a silenzi e coperture perduranti e solo in minima parte e con grandissima fatica perseguiti nelle aule giudiziarie con sentenze di condanna (l’ultima sulla trattativa Stato-mafia relativa alla tragica e lunga stagione degli omicidi e delle stragi di mafia).
Troppi gli interrogativi sul ruolo rivestito da pezzi di apparati delicatissimi dello Stato in vicende tuttora oscure o quasi, da Salvatore Giuliano, per non allontanarci eccessivamente, fino al massacro di via D’Amelio. Troppe le reticenze sulla fitta rete, parzialmente portata alla luce, di connivenze e accordi indicibili tra criminali, politici e pubblici ufficiali che nel tempo, compreso il periodo delle trame nere e del terrorismo rosso pieno di buchi neri e di strani contatti, hanno consentito favori reciproci, bisogna capire a quali scopi, in cambio di impunità dei membri della Cupola e del mantenimento del loro potere sul territorio. Latitanze d’oro e inspiegabili consentite per decenni a brutali personaggi con coppola e lupara e tuttavia frequentatori di salotti e parrocchie, come la tranquilla vita di padre di famiglia e di lavoratore onesto agli occhi di tutti del sanguinario capo dei capi Totò Riina.
Rimarremo una democrazia fragile, incompiuta e vulnerabile fino a quando non si avrà il coraggio di aprire cassetti e infrangere omertà. Solo la verità su quanto accaduto ieri ci condurrà oggi e domani alla vittoria definitiva sul maledetto cancro mafioso.
Pubblicato il
28 Ottobre 2018, 16:11