Quando D’Alema|non era Dalemoni

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27 Febbraio 2011, 03:52

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Quando D’Alema non era ancora Dalemoni, ma solo un giovane e promettente dirigente comunista, le sezioni rosse odoravano di domestico, familiare soffritto e fornivano a quella politica gli ingredienti basilari. Il profumo di casa, di comunità, di bucato appena steso, di chincaglieria abituale, era l’aggancio. E le discussioni interminabili tra vecchi compagni con la coppola e nuovi compagni con una sciarpetta già vagamente progressista infiammavano gli intelletti più audaci. D’Alema è cresciuto, ha modificato il corpo e la teoria intorno ai suoi baffi. Pure le sezioni rosse sono cambiate, resistendo eroicamente al mutamento di nomi e di prospettiva. Resistenza, sì, ma fino a un certo punto. Il patrimonio si è dissipato. I vecchi con la coppola sono davanti alla tv, i giovani con la sciarpetta hanno indossato la grisaglia o li trovate presso un nuovo domicilio di ideali e sogni. La domanda a Sergio Infuso è addirittura epocale: si parla tanto delle spaccature del Pd siciliano, della sua crisi, dei suoi tormenti. Forse tutto nasce dallo strangolamento della sapienza popolare e della bonaria democrazia delle antiche sezioni, è vero? Lo chiediamo a lui non per caso. Sergio Infuso è stato comunista, pidiessino, diessino. Ora è pidino un po’ alla lontana. Una perfetta cavia giornalistica, un narratore inaffondabile. Prima di mollare la presa diretta, ha governato le sorti della “Noce”, ritrovo storico di Palermo. Poi sono accaduti due eventi che hanno segnato il corso del destino. La moglie di Sergio, Rosa, è morta e il Pd ha cominciato il suo crollo verticale. Esiste un collegamento tra il “personale” e il “politico” che ha guidato i passi di questo militante civile. Tragedia umana e dramma collettivo si sono mescolati nella stessa tavolozza. Sergio è un uomo dal cuore saldo e univoco, abitato da passioni coerenti. Non conosce la schizofrenia dei cuori raddoppiati e moltiplicati per la labilità di sentieri differenti. Il volto di sua moglie morente e il vessillo di un impegno sempre più scialbo sono le vibrazioni dello stesso silenzio.

Siamo andati a trovarlo a casa – a due passi dalla sezione, ormai circolo democratico, dedicato alla compagna di viaggio, Rosaria Priolo – proprio perché Sergio Infuso è un paradigma scientificamente attendibile per raccontare gli anni terribili del Pd siculo e non solo. Lo è come memoria e come intelligenza. La malattia non è improvvisata, le difficoltà di un partito – è la sintesi del ragionamento – non sono roba istantanea. E’ una storia lunga e comincia quando D’Alema non era ancora Dalemoni.
“Una volta – dice Sergio – le care e superate sezioni erano un luogo decisionale in cui si esercitava la democrazia diretta. Si discuteva con impegno e il risultato non era mai ininfluente. Condizionava le mosse del partito cittadino, con un riverbero regionale. Quei luoghi non esistono più. Ci sono i circoli. Ci sono le riunioni in cui i gruppi dirigenti si limitano a chiedere la ratifica di una strategia già pensata nelle stanze che contano. Il partito non ama le vie complesse del confronto e meno che mai il dissenso. Se qualcuno dalla base alza il dito per denunciare un malessere o per proporre una visione diversa, o viene ignorato, o è gioco facile tacciarlo di eresia. Rispetto al governo Lombardo, io i disagi li colgo quotidianamente. Parlo con i compagni, mi misuro con i vecchi elettori. Il Pd ha affrontato un salto nel buio, tagliando i ponti a sinistra e rischiando di perdere identità rispetto ai suoi riferimenti tradizionali. C’è sconcerto. Eppure manca un vero dibattito intorno al tema che è paradossalmente negato, proprio quando si staglia senza equivoci davanti agli occhi di tutti”. I baffi, così dalemiani, di Raffaele Lombardo sono appena il crinale di uno sgomento che arriva dalle retrovie. Sergio non ha peli sulla lingua: “Abbiamo costruito la casa del Pd con tanta speranza, con l’augurio di una sintesi proficua che non c’è mai stata. Prendi la nostra vecchia sezione della “Noce”, adesso è un circolo: su duecento iscritti, centocinquanta sono centristi. La sostanza genetica di un’esperienza non c’è più, spazzata via. Non esiste più la sezione come concetto di spazio e tempo da mettere insieme. Ci sono posti che si reggono perché sono finanziati dal deputato, dal consigliere comunale. Sono potentati fortemente caratterizzati dalla dimensione personale del dante causa. Non c’è sfogo per le opinioni multiple, solo per l’operatività che non ha anima, per corroborare la carriera di chi ci mette i soldi. Una volta, nelle sezioni, i rapporti e le passioni con un comune denominatore politico si riflettevano nelle relazioni umane. Per me è stato così. Per tanti è stato così”.

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Sergio Infuso ha messo la sua firma sotto la tessera rinnovata del Pd per fede cieca nell’imponderabile. Mastica amaro: “L’antimafia era il nostro Dna, la nostra carta distintiva. Mi pare che si sia appannata, che si portino avanti ragionamenti senza sottilizzare troppo, come se dovessimo rassegnarci alla capacità della mafia di permeare ogni aspetto. In una città come Palermo, con l’amministrazione Cammarata, dovremmo volare. Invece, siamo afasici, non ne approfittiamo. Ci avvinghiamo e ci rotoliamo nelle faide. Restiamo impigliati in noi stessi. Io continuo a non ammettere la sconfitta, tuttavia temo che pagheremo un conto salato. Lotto ogni giorno. Sono sicuro che, prima o poi, ritroveremo il coraggio di cambiare. Non so quando, non so come”.
Sergio si è scoperto scrittore di buona fattura. Ha raccontato il suo cammino in un libro che scuote: “Un miscelino per Rosa” (ed. La Zisa). E’ un canto per la vita, condiviso tra la compagna adorata e il partito amatissimo. Copertina rossa, con la falce e il martello. Tra la falce e il martello, un piccolo cuore immacolato. Un cuore solo.

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