07 Settembre 2010, 11:32
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Perchè è possibile effettuare il più grande licenziamento di massa di lavoratori della pubblica amministrazione nel disinteresse, quasi generale, del Paese? Anzi, perché è possibile farlo addirittura con plausi, attestazioni di stima e dissertazioni macroeconomiche che giustificano il misfatto?
Come se non fosse già grave questo, la “fuoriuscita degli esuberi” avviene nel settore cardine della nostra democrazia, nel cuore della più grande istituzione formativa, in quella prestigiosa palestra di vita che dovrebbe disegnare la traiettoria del futuro di un Paese che sta diventando sempre più povero e ignorante.
La scuola. Abbiamo perso tutto: la scuola di massa, l’istruzione pubblica, il ruolo del docente, la sua autorità morale e pedagogica. Perché è avvenuto tutto ciò? Colpa della signora Ministro Maria Stella Gelmini? Purtroppo no.
Le responsabilità di tale disastro sono ataviche, vanno ricercate nelle scelte politiche e culturali degli ultimi venti anni: dalla riforma Galloni e Ruberti che voleva consolidare il rapporto tra scuola e impresa alla beffa del Ministro Berlinguer che avviò l’equiparazione tra pubblico e privato; dalle scelte post-manageriali della Moratti alle follie didattiche-formative di Fioroni.
La scuola è stata una sterminata prateria di sperimentazione per la riorganizzazione di un mercato del lavoro precario e flessibile, è stato il luogo della passivizzazione delle coscienze, svilendo il ruolo dell’insegnante attraverso farraginose procedure di immissione nelle graduatorie, nei corso abilitanti, nelle scuole di specializzazione. E contemporaneamente si sono violentati i programmi scolastici rendendoli più aleatori, limitando la libertà di insegnamento e di apprendimento, comprimendo la cultura dentro schemi preconfezionati che hanno illuso di poter costruire una programmazione più rispondente alle esigenze degli studenti.
Era tutto falso. In realtà tutto ciò è stato complementare e speculare alla grande operazione pedagogica che è stata pensata e costruita per realizzare l’involuzione culturale del Paese.
Aveva ragione Pier Paolo Pasolini, nelle sue visionarie riflessione vecchie già di quasi quarant’anni: “Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un uomo che consuma, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quelle del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.”
Questa nuova ideologia ha lottato e vinto contro ogni valore umanistico, contro le fondamenta di una cultura, improvvisamente apparsa eccessivamente lirica e velleitaria, che è stata fatta a pezzi dal bombardamento quotidiano di valori della competitività, del divismo voyeuristico, del successo effimero generato dalle svariate forme dell’apparire. È avvenuta una rivoluzione conservatrice nel Paese.
Così si forma il nuovo senso di massa del Paese e le cinque ore di quotidiana litania ammantata da nozioni e spirito pedagogico si sconquassa al cospetto del “Mostro mite” (come lo ha chiamato Raffaele Simone in un suo illuminante saggio di qualche anno fa!) che ha ormai conquistato le coscienze del popolo italiano. C’è un modo per ribaltare i rapporti di forza? Un’altra Rivoluzione. Culturale, ovviamente, ma sempre Rivoluzione.
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07 Settembre 2010, 11:32