Quel pacchione che ci divide

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24 Giugno 2011, 12:42

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Qualsiasi studente ricorda con angoscia le lezioni sulla questione della lingua italiana, a riprova che dare una lingua a un popolo non è cosa semplice né scontata. In Sicilia, molto più sbrigativamente di quanto abbiano fatto Dante, Petrarca, Manzoni e l’Accademia della Crusca in seicento e passa anni, è stato sufficiente un voto bipartisan all’assemblea regionale siciliana per approvare una legge che in quattro articoli stabilisce che alcune ore di lezione vengano dedicate alla “valorizzazione e insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole di ogni ordine e grado”.

Sarà una coincidenza, ma suona clamoroso che la legge sia stata approvata nell’anno in cui si celebra il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. In ogni caso, tre ore di italiano in meno e tre ore di Sicilia in più. È evidente che l’insegnamento del “patrimonio linguistico”, cioè il dialetto, apre in Sicilia una complessa questione linguistica. Finora ciascuno ha parlato il siciliano come meglio gli pareva, come aveva imparato a casa o con gli amici o per strada. Adesso, improvvisamente, si deve decidere dove risciacquare i panni: nell’Oreto o nel Simeto? Nel Salso o nel Platani? Nel Belice o più placidamente nel lago di Pergusa? Non è questione da poco.

Tutti i siciliani sanno che ogni paese, perfino ogni quartiere, ha un suo dialetto. I palermitani riconoscono a orecchio chi viene dalla Kalsa o da Cruillas, chi è cresciuto al Capo o ad Acqua dei Corsari. Quale dovrà essere allora il dialetto da studiare a scuola? Questione semplice, si può dire: quello del luogo. Certo, ma le immigrazioni interne hanno rimescolato le carte. Facciamo un esempio: l’insegnante catanese in servizio a Palermo quale definizione dovrà dare ai suoi studenti per spiegare la parola “pacchione” che a Palermo addita qualcuno un po’ in carne e a Catania invece una parte innominabile del corpo femminile?

Vabbè, dettagli. Ma su questi dettagli per seicento anni si è discusso in tutta Italia, al punto che ancora adesso le grammatiche non hanno stabilito se ombelico si scrive con una o con due elle. Siccome in Sicilia ragioni per litigare ce n’erano poche, adesso abbiamo nuove ragioni per azzuffarci fra di noi. La circolare che, entro una novantina di giorni, indicherà come e cosa fare studiare nelle scuole siciliane, riuscirà a farci capire almeno un’acca? Un’acca, proprio così. Quell’acca che nella vasta zona che va da Licata a Ragusa scompare del tutto per cui la pioggia “ciove” dal cielo, i “ciova” vengono piantati col martello e la “mincia” diventa quasi irriconoscibile.

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Ma su questo, come su altri dettagli, si potrà sempre costituire un’apposita commissione con esperti, studiosi e consulenti che in una trentina d’anni riuscirà sicuramente a fornire le certezze necessarie per codificare una lingua familiare, locale, ibrida e in continua evoluzione come il dialetto. C’è poi la questione della storia e della letteratura siciliana: ma qui siamo nel solco di una lunga e annosa vicenda che ha a che fare con il sicilianismo, quella corrente di pensiero un po’ piagnona che ha sempre considerato la Sicilia grande perché incompresa e incompresa perché grande. Eppure, nemmeno i più accesi sicilianisti come Giuseppe Pitrè si sognarono mai di scrivere in dialetto. Per me non esiste la letteratura siciliana: Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Rosso di San Secondo, Martoglio, Sciascia, Brancati, Vittorini e tutti gli altri sono i grandi autori di una letteratura nazionale scritta alla latitudine della Sicilia. Se togliessimo questi autori dagli scaffali non perderemmo la letteratura siciliana, ma un pezzo fondamentale della letteratura italiana. E quanto alla storia: ho sempre creduto che quella passata dalla Sicilia debba essere compresa, inquadrata e letta alla luce della storia nazionale e mondiale.

Per il resto, so bene che finora nelle scuole molti insegnanti di buona volontà, nelle loro lezioni, hanno già parlato del dialetto, hanno approfondito gli aspetti della storia relativi alla Sicilia e hanno soffermato l’attenzione dei loro studenti sui grandi romanzi che parlano della Sicilia. Queste tre ore sottratte all’italiano – lingua ufficiale che molti ragazzi non riescono nemmeno a parlare e scrivere compiutamente – temo ci rinchiudano ancor di più nel nostro recinto triangolare, in quest’isola a volte prigione a volte giardino murato.

Il siciliano si è sempre imparato a casa o per strada, come tante altre cose – dalla gastronomia al sesso, dalle parolacce ai cruciverba – che è giusto lasciare all’iniziativa e alla fantasia di ciascuno. Senza nulla togliere a chi sostiene che il siciliano è una lingua con tutti i crismi, ho come il presentimento che per il futuro dei nostri ragazzi sarebbero state più utili tre ore di inglese o di tedesco o addirittura di cinese. Per farli diventare dei siciliani cittadini del mondo.

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24 Giugno 2011, 12:42

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