17 Luglio 2017, 20:35
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ROMA – “Il problema della lotta o comunque delle indagini sulla criminalità mafiosa io lo sento profondamente”, “non vedo perché l’opinione pubblica non debba essere interessata di questo problema; anzi è pericoloso quando l’opinione pubblica non viene interessata a questo problema”, che “non è una lotta tra giudici e mafiosi, né tra poliziotti e mafiosi, ma è un problema che interessa tutti”. A pronunciare queste parole il 31 luglio 1988 è Paolo Borsellino. Di fronte ha la prima Commissione del Csm e il Comitato Antimafia che lo ascolteranno 4 ore, dalle 10 alle 14. Lo stralcio è un passaggio del verbale di quell’audizione che, insieme agli altri atti relativi al magistrato ucciso dalla mafia con la scorta il 19 luglio 1992, il Csm ha deciso di pubblicare a 25 anni dalla strage di via D’Amelio.
Perché il Csm volle ‘interrogare’ Borsellino? Dopo un convegno dove già aveva parlato di questi problemi nel totale silenzio della stampa locale, Borsellino fu contattato da Repubblica e dall’Unità e rilasciò delle interviste in cui manifestava forti preoccupazioni per la situazione in cui si trovava l’ufficio istruzione di Palermo col pool antimafia. Alla guida di quell’ufficio aspirava Falcone, ma fu scelto Antonino Meli: era il gennaio 1988. Il Csm e molti suoi componenti di allora ritenevano che Borsellino avrebbe dovuto passare per i canali istituzionali anziché per il clamore della stampa. Un clamore che Borsellino ammette di non aver cercato né previsto. Nel verbale dell’audizione, on line sul sito del Csm, il giudice, incalzato dai consiglieri, spiega come operava il pool antimafia: stretta collaborazione e lavoro “giorno e notte”.
“Dal gennaio al novembre 1985 non credo di essere uscito se non per 4-5 ore al giorno, e per giorno intendo le 24 ore, dalla mia stanza senza finestre nel bunker”, racconta. Dal suo resoconto, fuoriesce anche il primo tentativo di “computerizzazione dei processi” in un’epoca che non aveva ancora preso confidenza con l’informatica. Ma anche fasi drammatiche, come il trasferimento suo, di Falcone e delle famiglie all’Asinara, dopo l’assassinio del commissario Cassarà, che li portò ad essere “segregati in un’isola deserta” per continuare a lavorare al maxi-processo. I passaggi più significativi del documento sono quelli in cui Borsellino manifesta le sue preoccupazioni per la “sorte del pool antimafia”. Timori fondati su quanto gli riferivano i colleghi magistrati, anche se nel corso dell’audizione qualche consigliere tenta di derubricare a “confidenze” quelle parole. Ma Borsellino sa bene, e lo dice, che quegli allarmi non sono pettegolezzi. E spiega bene l’opera di “smantellato” del pool, le azioni per depotenziarlo: le indagini non assegnate a Falcone, quelle finite a magistrati esterni al pool sul cui tavolo arrivano invece procedimenti che con la mafia non c’entrano nulla; i piani di ristrutturazione non condivisi e calati dall’alto. Si determina così una caduta di tensione di fronte alla quale Borsellino si dice “allarmato”. “Quando contemporaneamente – dice – si verificano una stanchezza sia nell’opinione pubblica sia negli esponenti culturali su questo problema; una poca attenzione dello Stato nel suo momento amministrativo, perché si continua a tenere la Sicilia, con riferimento agli organi di polizia, in una situazione di assoluta marginalizzazione; quando, insieme a ciò il pool che è l’unico organo investigativo che, parliamoci chiaro, è quello che ha riaperto la questione per iniziativa prima di Rocco Chinnnici e poi di coloro che lo hanno seguito, quando tutto questo va male, è certo che sono estremamente allarmato”.
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17 Luglio 2017, 20:35