06 Maggio 2018, 15:23
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Si è molto polemizzato sulla mistificazione storica intorno alla quale si è costruito il progetto di candidatura che ha portato all’iscrizione del sito “Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale” nella Lista Unesco del Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Il termine arabo-normanno dal “sapore turistico”, evoca immaginari connessi al mito della Palermo araba, anche se nessuno dei monumenti dell’itinerario risale alla dominazione araba in Sicilia. Gli unici resti di architettura islamica si trovano fuori Palermo e sono i Bagni di Cefalà Diana, non inseriti nel percorso. E il colore delle famose “cupolette rosse” è “un’invenzione” ottocentesca legata ai lavori di restauro dell’architetto Giuseppe Patricolo.
Il percorso rappresenta un esempio importante di sincretismo tra Oriente e Occidente, di dialogo fra diverse culture e religioni e di capacità di saper “coltivare la coesistenza” nel medioevo siciliano. Ma se tale percorso descrive questa stratificazione di coesistenze, in grado di dare vita a nuove espressioni artistiche, appare difficile comprendere perché siano state celate altre tracce, quelle bizantine per esempio. Forse perché non rispondenti ai criteri richiesti dalla candidatura?
Se è abbastanza noto che il meccanismo di individuazione e selezione dei siti Unesco è piuttosto farraginoso, e che le procedure sono legate a specifici criteri di scelta, meno noto è che il valore su cui si fondano tali parametri, in particolare il concetto problematico di autenticità, riflette una concezione di patrimonio culturale che è stata messa in discussione dalla critica contemporanea.
Ai nove siti che compongono il percorso arabo-normanno (Palazzo Reale e la Cappella Palatina, la Cattedrale, San Giovanni degli Eremiti, la Zisa, la Martorana, San Cataldo, il Ponte dell’Ammiraglio, il Duomo e il Chiostro di Monreale e Cefalù) si stanno per aggiungere altri cinque monumenti. Si tratta del Castello a Mare, della Cuba, del Castello di Maredolce con il Parco della Favara, della chiesa della Magione e di quella di Santa Maria della Maddalena all’interno della Caserma dei carabinieri Dalla Chiesa-Calatafimi.
“Stiamo lavorando a Castello a mare per la riorganizzazione degli interventi necessari a superare le criticità esistenti e potere inserire così il monumento nell’itinerario arabo-normanno. Si tratta di un approfondimento tecnico scientifico – dice Aurelio Angelini, direttore Fondazione Patrimonio Unesco-Sicilia – a cui si aggiunge la parte che riguarda la fruibilità per migliorarne il decoro e l’accessibilità: messa in sicurezza del castello, chiusura dell’area archeologica oggi utilizzata come parcheggio, spazio per concerti o come area posticcia di bar e ristoranti, e creazione di un servizio di vigilanza”. Angelini spiega inoltre per quale motivo si è partiti dall’importante fortalizio militare palermitano: “Il castello si trova vicino al porto e rappresenta per i numerosi croceristi che giungono in città un punto strategico di accesso per l’intero percorso”.
Difficile, dalla lettura dell’elenco, comprendere le scelte che hanno portato all’inclusione di certi luoghi e all’esclusione di altri, anche se è ovvio che – come in tutti i percorsi di candidatura – alla fine abbiano prevalso iniziative contingenti. Viene da chiedersi perché non inserire all’interno del sistema integrato di tutela e valorizzazione previsto, la cinta muraria medievale della città di Palermo, ricordata già nella descrizione geografica di Al-Idrïsï, che comprendeva i cinque quartieri della città: il Cassaro, con la Galka, l’Albergheria, Seralcadio, la Halcia.
La sregolata espansione urbana di Palermo ha purtroppo cancellato la quasi totalità della cinta muraria, di cui sopravvivono alcuni tratti ancora leggibili, e due delle porte d’accesso alla città, quella di Mazara (quartiere Albergheria) e quella di Sant’Agata (corso Tukory). Sembra impensabile in una volontà di rendere fruibile il patrimonio e la sua lettura, dimenticare il tracciato originario che delimitava la città normanna, dal tratto di via della Pace, oggi non fruibile al pubblico, a quello adiacente a porta Sant’Agata, esposto alle attività del mercato di Ballarò, da quello di piazza Montalto alle ultime messe in luce a palazzo Reale. Sarebbe utile, per una corretta gestione rendere comprensibili tutte le componenti culturali, storiche e ambientali.
La Palermo dai mille volti, la città del percorso Unesco, potente fattore di attrattiva turistica come l’essere Capitale della cultura e sede di Manifesta, biennale d’arte contemporanea, ha l’occasione e la necessità di riflettere sulle politiche di sviluppo turistico del suo territorio e del suo patrimonio culturale. C’è da chiedersi come limitare i danni di una economia turistica “mordi e fuggi” che presa dalla furia dell’immediato benessere non è capace di guardare lontano.
Una politica, un’economia, una città così distratte dall’invasione dei croceristi da non accorgersi, per esempio, che proprio nel salotto buono del centro storico, nell’area pedonalizzata dal 2016 del percorso arabo-normanno (che va da Palazzo Reale ai Quattro Canti lungo corso Vittorio Emanuele, l’antico Cassaro), ci sono ancora ben tre dimore storiche sventrate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale che fanno triste mostra di sé. Palazzo Ugo delle Favare, palazzo Geraci-Ventimiglia, palazzo Papè Valdina sono abbandonati al loro dolore. Si è detto che questioni legate all’asse ereditario ne impediscono il restauro. Ma di tutti e tre? Non è possibile intervenire in alcun modo? Perché il grande pubblico oltre ai rifiuti contemporanei deve trovare anche le macerie del secolo scorso?
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06 Maggio 2018, 15:23