03 Ottobre 2011, 05:51
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Bisognerebbe compiere un’operazione a cuore aperto, una necessaria amputazione, e scrivere finalmente che la sanità privata è un’indecenza. Ci sono ottime persone, bravi medici, infermieri coscienziosi che guadagnano ogni centesimo di euro del loro stipendio per la discrezione e la dignità delle attività che svolgono. Ma se il paziente diventa una fonte di ricchezza e non più soltanto un corpo da curare e un’anima da sorvegliare si smarrisce la gratuità che – nei giuramenti deontologici dei medici – è il senso ultimo di una terapia, dell’idea stessa di assistenza. Ovviamente, è naturale che il lavoro venga ricompensato, che i camici bianchi ricevano un compenso per il viaggio difficile che perpetuano, a cavallo di mondi difficilissimi. Tuttavia, è l’idea della sanità imprenditrice a configurarsi come una follia. Le parole che abbiamo ascoltato – da valutare in sede penale – sono la radice estrema di un principio sbagliato: la prosperità della banconota collegata alla sofferenza degli altri, il guadagno sul dolore, i dividendi sulla malattia.
Solo smaccate operazioni propagandiste – di cui è semplice cadere vittime, è capitato anche a chi scrive – hanno reso malleabile il concetto di un universo felicemente armonioso, abitato da primari abbronzati da telefilm, magnati caritatevoli e pazienti sorridenti, contenti di patire e morire nel tempio della moneta, come se ci fosse una qualità in più. Ed è orribile la tendenza che ha morso e cambiato l’intelletto di chi soffre. Pago per essere più rispettato. Pago per comprarmi uno sguardo e un futuro migliore. Pago, in definitiva, per acquistare l’illusione dell’umanità. Sono i miei soldi a proteggermi a far sì che lo specialista con lo stetoscopio mi veda come una persona, non più come una ferita indistinta nel carnaio, nel formicaio dei crocifissi al muro.
E da qui le richieste impossibili, i vagheggiamenti pericolosi. Pago, dunque sono più uomo degli straccioni che affollano i pronti soccorsi. Pago e ho diritto a un farmaco più efficace. Pago, perciò non posso morire. La vendetta del meccanismo è stata spietata. I malati che avrebbero voluto dotarsi di visibilità in ragione del contante, sono diventati invisibili. Al loro posto, il trionfo del denaro in corsia. Li immaginiamo – in un incubo non troppo dissimile dalle cose – i letti d’ospedale con i sacchetti muniti del segno del dollaro. E intorno, una miriade di Paperoni col becco intenerito che coccolano le monete, le vezzeggiano e appiccicano all’occorrenza sul metallo il segno del bacino della buonanotte.
Nel frattempo, si è inaridita la vena della sensibilità che ci avvertiva con grida inascoltate: attenti, se c’è il profitto, scompare dalla scena l’interesse umanistico. A forza di baciare le monete, ci scorderemo degli ingombranti bipedi in pelle e ossa, non più ragione suprema della sforzo terapeutico, ma combustibile del guadagno. Ormai, la privatizzazione della sanità corrode le strutture pubbliche. Il minutaggio è contato, le risorse pure. Nella ricchezza c’è l’ossessione dell’economia che produce, nella povertà c’è la coperta corta dell’economia che risparmia. I sacchetti col segno del dollaro sono ovunque. Hanno cementato il sentimento di onnipotenza e di confusione del medico. Il denaro non ha parenti scocciatori che aspettano in corridoio. Il denaro non muore.
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03 Ottobre 2011, 05:51