06 Luglio 2014, 06:05
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Acireale – “Basta funerale in chiesa per i mafiosi”. Il monito lanciato proprio un anno fa da monsignor Nino Raspanti, vescovo della città dei cento campanili, ha fatto il giro d’Italia. Una presa di posizione accolta con favore dall’opinione pubblica. Anche se non sono mancati gli accenti polemici. Parole nette che fanno sicuramente il paio con la scomunica pronunciata da Papa Francesco in Calabria nei riguardi degli affiliati alle cosche. Segnali di una Chiesa che vuole essere protagonista della riscossa morale e civile del territorio meridionale. E anche se finora, nei fatti, Raspanti non ha dovuto vietare a nessuno le esequie, “perché – spiega a LiveSicilia – non si è presentato alcun caso. Dal punto di vista della mentalità, invece, si registrano dei segnali interessanti. Nella gente noto – riferisce ancora il vescovo – una maggiore sensibilità sul tema mafioso”.
Perché, prima non c’era?
Il problema principale che ho trovato in questo territorio è la poca coscienza dell’opinione pubblica sul male mafioso. Addormentata, direi. Qui non ho trovato quella stessa consapevolezza che si registra in Sicilia occidentale, a Palermo. Non intendo solo ad Acireale, ma anche a Mascali, Comune sciolto per mafia. A novembre ho tenuto lì un’omelia che, mi dicono, ha scosso fortemente. Credo perché sono stato più che mai esplicito. Penso poi a Giarre, area carica di problematicità.
C’è anche chi l’ha contestata.
Esatto. Anche pubblicamente. Ma questo ha significato il prendere posizione. Con piacere ho notato che negli oratori della Diocesi sono stati organizzati degli eventi dedicati a padre Puglisi. Penso a Piano D’Api, una frazione di poco più di un migliaio di abitanti. Sono contento. Ho visto poi le forze dell’ordine e le istituzioni schierate con decisione, presenti in certe manifestazioni in modo chiaro, senza tirarsi in dietro. Questo è incoraggiante per tutti.
Cosa si è innescato, in pratica?
Quando si alza una bandiera, si ha qualcuno a cui riferirsi e, quindi, tutti trovano più coraggio.
Molto spesso i mafiosi sono anche battezzati. Una sorta di ambiguità. Ci faccia capire: quando la coscienza cristiana viene ottenebrata da quella mafiosa, come avviene questo cortocircuito?
La mafia è un particolare tipo di delinquenza, tanto organizzata da divenire antagonista allo Stato e alla Chiesa. Loro non reggono nessun’altra istituzione che si definisce sovrana nel proprio campo, politico o religioso che sia. Si appartiene alla mafia perché si è educati ad un codice culturale.
È anche un problema antropologico, quindi?
Di fondo lo è. Quando è così, il rapporto con i sacramenti, col sacro, con i santi, è inficiato nella crescita. E diventa megafono di quella volontà di potenza, di quel delirio di onnipotenza, che normalmente ottenebra chiunque appartiene a questo tipo di organizzazioni. Volontà di possedere tutto.
Una volontà che tira in ballo il Demonio, come sostiene il Papa?
Sì, nel senso che ci si può alleare con lui. Ma è una realtà, quella mafiosa, e sia chiaro, totalmente umana. La Chiesa è stata l’organizzazione più grande per interi secoli, anche più dello Stato. Quella socialmente più riconoscibile. Ecco, quando il mafioso, durante la festa di una santo, poteva dare un’offerta importante, quello era un simbolo di comando. L’amplificatore di ciò era la Chiesa. Ma in una società secolarizzata, questo dominio non passa più dai campanili o dalle processioni. Il connubio tra sacro e mafia, a mio avviso, cadrà naturalmente.
In molti se lo augurano.
La loro è una religiosità distorta. Come è distorta pure la loro personalità. Non posso immaginare che uomini che hanno ucciso siano equilibrati. Con questo non voglio dire che non siano redimili o che la Grazia di Cristo non si anche a loro disposizione. Per carità. Chi sono io? Sono servo, non padrone di Cristo. Se il più grosso delinquente dovesse chiedere il pentimento, e io dovessi appurare che è sincero, io sono in obbligo di dargli il perdono.
Basta solo questo?
Noi crediamo che i segni di pentimento devono passare anche dal tentativo di riconciliarsi con quella società che in qualche modo, tu mafioso, hai ferito. Ecco perché bisogna essere leali con la giustizia dello Stato, che non sarà perfetta, non sarà divina, ma non è neanche un puro nulla. Non ci posso passare sopra, non la posso scartare.
In ogni caso?
Certo, in articulo mortis non ci sarebbe più tempo per dire di andare in tribunale. Ma quelli sono casi limite. In punto di morte non c’è appello. Ma in casi regolari, le Chiese siciliane lo hanno detto più volte, è giusto percorre un cammino di riconciliazione anche con la società.
Tutto questo, soprattutto tra i mafiosi, non è stato ancora compreso a dovere. L’ambiguità, ad ogni modo, persiste. Lo si è visto anche di recente anche a Paternò, per non andare molto lontano.
Guardi, non giudico la coscienza delle persone. Chi sono io? Ma da segnali esterni, questo sì, posso intuire se è distorta, se è contorta, malata. Gesù è venuto per i malati. I conti tornano. E non mi stupisce affatto se i mafiosi leggano la Bibbia. Resisto invece al mafioso che vuole convincermi che la sua interpretazione è migliore della mia. Amico mio, un attimo, sottostai anche tu, come me, a quella disciplina che Cristo ci ha lasciati! Tu non sei al di sopra della norma!
Oltre gli ammonimenti, la Chiesa con quali strumenti può agire per prevenire il cancro mafioso?
Con l’educazione. Credo che dobbiamo annunciare il Vangelo in maniera chiara, senza tentennamenti e senza troppe sfumature. “Sì, sì, no, no”, diceva Gesù. I cosiddetti uomini d’onore, lo sono del disonore. Deve essere chiaro questo passaggio. Dobbiamo lavorare sulle coscienze.
Una delle questioni più spinose che ha dovuto gestire, poco dopo la presa di possesso della cattedra vescovile, è stata quella che ha visto coinvolto don Carlo Chiarenza, accusato di abusi sessuali su minori. Quella ferita è ancora aperta?
Ancora non so valutare sino in fondo. Innanzitutto, perché la sua situazione non ancora chiarita. Lui ha presentato ricorso rispetto al giudizio pronunciato dalla Santa Sede e non è stato ancora esitato. Non è nel mio potere entrarvi. Ma noto che, anche al di fuori della cronaca, la gente è in attesa. Ciò detto, posso dire che c’è stata una evoluzione.
In che senso?
All’inizio ho visto, naturalmente, smarrimento. Anche contraddizioni e scontri. Ho ricevuto tantissime testimonianze su di un operato altamente positivo di questo sacerdote. Come anche testimonianze contrarie. Ho percepito, dunque, un’opinione pubblica spaccata, totalmente. Per tutti è stato un grande choc, una grande ferita. E non credo che si sia guariti. È il contesto ferito. Non solo quello acese, ma globale. Tutti questi casi ci hanno fatto capire che non esistono territori esenti.
Da poco Acireale ha un nuovo sindaco, Roberto Barbagallo. Cosa si sente di consigliargli?
È un giovane. Mi è parso animato da tantissima voglia. Vuole lavorare. Ho piena fiducia nella sua volontà di infondere nuova linfa. Chi lo ha votato cerca sicuramente novità. Ma non voglio togliere nulla alla precedente amministrazione. Credo che ci siano situazioni epocali che vadano al di sopra del singolo Comune.
Ci faccia capire.
Non caricherei l’amministrazione comunale di un peso maggiore di quello che può avere. Se la classe imprenditoriale è dormiente, assottigliata, o bloccata da altre questioni (Regione, tasse, credito, etc.), dall’Amministrazione cosa può venire? Essa non può creare economia. Ciò non compete al sindaco, né per decreti, ordinanze o miracoli. Qui al Sud ci aspettiamo ancora troppo dallo Stato.
Gli acesi non devono, quindi, sperare in un cambio di passo?
Indubbiamente l’amministrazione ha delle responsabilità e compiti. Può, giorno per giorno, facilitare chi vuol fare qualcosa. Può evitare che la gestione della cosa pubblica possa apparire una cosa ristretta. L’amministrazione può chiedere alla società civile di partecipare. Non deve far cadere soldi a pioggia. Questo no. Ciò danneggerebbe i cittadini.
E lei cosa potrebbe fare in questa fase?
Io ho già dato la mia disponibilità, a tutti e sette i candidati e pubblicamente. E l’ho ribadita al nuovo sindaco. I sacerdoti e le comunità cattoliche della città ci sono affinché si possano costruire pezzi di palazzo assieme, e non solo con gli strumenti della carità e della solidarietà. Questo è un territorio impoverito, ma non povero. Siamo qui affinché certe gelosie di campanile, che talvolta esistono, possano essere smussate.
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