Reticenze, dubbi, sussurri | Le ombre del caso Agostino

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05 Agosto 2011, 08:18

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Nino Agostino non sarebbe stato tra gli scogli dell’Addaura a sventare l’attentato a Giovanni Falcone. L’ultima pista battuta dagli inquirenti per dare un movente all’uccisione del poliziotto legato ai servizi e di sua moglie Ida Castellucci – il 5 agosto del 1989 – è sfumata con l’analisi del dna prelevato dalla muta da sub. Non coincide. Il personaggio conosciuto come “faccia da mostro” non ha ancora un volto. Non si sa chi ha sparato e, soprattutto, chi ha armato le mani dei killer. E sul suo caso non esiste neanche un segreto di Stato. Così, a 22 anni dal barbaro omicidio di Nino Agostino e della moglie Ida Cappellacci, sono poche le certezze e molti i dubbi.

L’inchiesta della procura di Palermo vede indagati anche un ex agente e un ex dirigente di polizia e un ex prefetto. Il primo è Guido Paolilli. Si tratta di un ex poliziotto che in diverse occasioni è stato “aggregato” alla mobile di Palermo, come accaduto proprio all’indomani del delitto Agostino. Paolilli ha condotto le indagini indirizzandole, sin da subito, su un movente passionale che non ha mai avuto alcun riscontro. Dopo qualche mese l’agente è stato trasferito all’Alto commissariato antimafia. Il suo ruolo, a tutto tondo, viene fuori da un’intercettazione ambientale effettuata nella sua casa di Montesilvano, in provincia di Pescara. Mentre in televisione va in onda un servizio in cui il padre di Nino, Vincenzo Agostino (nella foto con la moglie), parla del biglietto trovato nel suo portafogli – in cui era scritto “se mi succede qualcosa guardate nell’armadio di casa” – il figlio di Paolilli lo interroga: “Cosa c’era in quell’armadio?”. E la risposta è stata lapidaria: “Una fresa di carte che ho distrutto”. Secondo le indagini il suo ruolo è stato quello di depistare le indagini sull’omicidio.

Un’altra figura su cui si indaga è il personaggio ormai noto alle cronache con l’appellativo “faccia di mostro”. Vincenzo Agostino, infatti, subito dopo la scomparsa del figlio, ha raccontato la strana visita ricevuta da parte di due persone, mente Nino si trovava in viaggio di nozze. Uno “era un uomo con i capelli biondi, dal viso orribilmente butterato” e guidava la moto. La stessa “faccia di mostro” che viene collocata da alcuni pentiti negli scenari dell’Addaura e di via D’Amelio. A seguito di colloqui investigativi in carcere con Ignazio D’Antone, ex dirigente della mobile palermitana che sta scontando dieci anni per concorso esterno al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, le indagini si sono focalizzate su tale Aiello, un ex poliziotto in pensione di origini calabresi, in servizio a Palermo nella seconda metà degli anni ’80. Il suo nome è venuto fuori anche dagli interrogatori del pentito Vito Lo Forte, secondo cui, sarebbe proprio lui “faccia da mostro”. Lo Forte, ex spacciatore uscito e rientrato nel programma di protezione dopo aver commesso un omicidio, coinvolge anche Gaetano Scotto, condannato per la strage di via D’Amelio. Ma Vincenzo Agostino non l’ha riconosciuto con certezza, anche perché gli è stata mostrata una foto in cui Aiello non aveva ancora subito la deturpazione del viso a causa di un’esplosione accidentale . Tutto da chiarire sarebbe, poi, il ruolo dell’ex prefetto iscritto nel registro degli indagati, che si accompagnava proprio ad Aiello. Infine l’uomo che con “faccia da mostro” sarebbe andato a trovare Agostino è stato riconosciuto in passato ma, a seguito di verifiche, è risultato in carcere in quel periodo.

Gli omicidi di Nino Agostino ed Emanuele Piazza, altro poliziotto prestato ai servizi, al momento non risultano collegati. L’unico area di intersezione fra le due vicende è rappresentata dalla presenza a Palermo, a capo della squadra mobile, di Arnaldo La Barbera. Sarebbe stato lui, infatti, a chiamare Paolilli a indagare sul delitto Agostino. Mentre per quanto riguarda Piazza, sempre La Barbera avrebbe chiesto al padre del poliziotto di mantenere segreta la notizia della scomparsa del figlio che, effettivamente, è stata resa pubblica solo sei mesi dopo, il 16 settembre del ’90. Il quadro assume tinte fosche a seguito della rivelazione – fatta dai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza nel libro “L’agenda nera” – dell’appartenenza di La Barbera ai servizi segreti col nome in codice di “Catullo”.

Infine, sul caso Agostino non è stato apposto alcun del segreto di Stato. Già questa eventualità aprirebbe qualche spiraglio per la risoluzione del mistero. In realtà il segreto di Stato è stato tirato in ballo quando i magistrati palermitani hanno chiesto l’elenco degli agenti dei servizi segreti operativi in Sicilia nel periodo del delitto. Una richiesta che non ha avuto esito positivo. E più che di fronte a un segreto di Stato, ne sono convinti gli inquirenti, si è di fronte a reticenze di Stato.

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05 Agosto 2011, 08:18

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