“Revocarono il carcere duro|E io non ne sapevo niente”

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11 Novembre 2011, 07:59

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Mentre in tutta Italia scoppiavano le bombe piazzate da Cosa nostra, oltre 300 nomi grossi della mafia venivano riammessi fra i detenuti comuni, mettendo fine al loro isolamento al 41 bis, il carcere duro. E l’uomo che stava a capo del Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria, non ne sapeva nulla. L’ultimo retroscena su quella che è considerata parte della trattativa fra Stato e Cosa nostra, viene fuori da un verbale del dicembre dello scorso anno, in cui a parlare è Adalberto Capriotti, direttore del Dap dal luglio 1993 al giugno del ’95. L’ex magistrato racconta anche particolari inediti su un periodo cruciale della recente storia italiana.

Parla del suo vice, Franco Di Maggio, e di come avrebbe letteralmente messo le mani addosso all’allora Guardasigilli, Giovanni Conso. Ma racconta anche come, la notte dell’esplosione della bombe a Roma e Milano, fu convocata una riunione straordinaria a Palazzo Chigi alle due del mattino. E l’orientamento generale era che si trattasse di terroristi della ex Jugoslavia, con l’eccezione del capo della polizia Parisi che avrebbe detto: “Questa è mafia”.

La lite col ministro. Adalberto Capriotti, già procuratore generale a Trento, succedeva a Nicolò Amato. “Mi fu posto – racconta al procuratore capo Messineo, all’aggiunto Ingroia e ai sostituti Di Matteo e Sava – vicino, subito, un personaggio importante ma come un turbine, una tempesta, ed era il collega Franco Di Maggio (…) fu chiamato e messo al mio fianco come vice”. Non imposto, specifica l’ex direttore del Dap, ma proposto dal gabinetto dell’allora Guardasigilli, Giovanni Conso. “Lì è, anche per le vostre indagini, molto è il gabinetto, lì dovete guardare, ecco, il gabinetto del ministro che con Conso era capo di gabinetto una donna e rimase, questa donna credo che venne con Martelli che era il predecessore, che si chiama Pomodoro, a sua volta essa era, c’aveva un vicecapo del gabinetto pure donna che si chiamava Liliana Ferraro”. Quest’ultima è stata una stretta collaboratrice di Falcone al ministero.

Nelle parole di Capriotti, l’allora Guardasigilli Giovanni Conso era “un uomo molto prudente, di una levatura anche giurid… specifica, scientifica e morale superiore e credo che se l’avesse conosciuto…”. Perché, parlando di Di Maggio, Capriati avverte : “Io non lo conoscevo e non l’avessi mai fatto”. E spiega perché: “Una volta ho assistito a violentissima lite, sempre per ragioni di ufficio, fra Conso e questo Di Maggio e io mi misi di mezzo perché Di Maggio, oltre a dargli del tu, lo insultava e insomma io non potevo permetterlo, e per la mia posizione e perché Conso era il nostro ministro, era il nostro ministro e questo non si può fare”. Secondo le indagini, c’era un tema che faceva scintille: il 41 bis. Ma Capriotti non ricorda, “non lo so ma probabilmente… ho visto un mucchio di carte così, ecco (…) io entrai quando già era in atto questo diverbio”. “Tenga presente – aggiunge – che finché ci fu Di Maggio, le proteste di tutti i funzionari, gli ufficiali allora, e per una cosa o per l’altra, erano quasi quotidiane che pervenivano a me… lo stesso ministro Biondi (successore di Conso, ndr) si rivolgeva a me”.

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I trecento. L’interrogatorio si muove sulla mancata proroga di oltre trecento 41 bis, allora rinnovato di volta in volta ogni sei mesi. Capriotti spiega come si istruivano le pratiche: “Credo che loro richiamassero l’attenzione sul carcere, sul direttore, sugli assistenti aociali, cosa dicevano, e naturalmente sul pubblico ministero”. Poi al Guardasigilli veniva proposta una lista di persone a cui prorogare il regime di carcere duro. Un elenco che poteva essere decurtato di alcuni nomi a cui, automaticamente, veniva revocato il 41 bis. E per gli inquirenti qualcosa non torna. Come mai questi pareri, di vari uffici e diverse autorità, sono stati chiesti solo il 29 ottobre 1993 (un venerdì), su un provvedimento in scadenza il 1° novembre seguente? “C’è allegato con circa 300, forse anche di più, nominativi di detenuti – dice il pm Di Matteo – risulta a questo ufficio che in relazione a questo elenco, nessun 41 bis venne prorogato (…) un mancato rinnovo nei confronti di più di 300 detenuti, ha memoria?”. “No, non l’ho mai sentito” risponde l’allora direttore del Dap. “Non le sembra un po’ diciamo in qualche modo tardiva questa richiesta” chiede il pm. “E certo che è tardiva” risponde Capriotti.

Più avanti nell’interrogatorio, il procuratore capo Messineo fa il punto: “Sotto la sua gestione, a novembre del 1993, furono non prorogati e quindi di fatto revocati se così vogliamo dire (…) circa oltre 300 posizioni fra cui io ho letto qua l’elenco, anche noti capimafia, come lo spiega?”. “Io rispondo – dice Capriotti – l’amministrazione ha valutato e se ha valutato bene è un altro paio di maniche, che non convenisse prorog… riandiamo al discorso qualcuno forse ha suggerito… ecco, questo è… (…) il ministro era a conoscenza di questa revoca”. Capriotti, invece, sostiene di non essere stato mai informato da nessuno.

Il comitato straordinario. La notte fra il 27 e il 28 luglio 1993, la mafia fa esplodere bombe a Roma (a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro). “Fummo svegliati alle due di notte e portati a Palazzo Chigi dove già c’era Ciampi (allora presidente del consiglio, ndr), c’erano molti eh, questo sì, non ricordo Conso, se ci fosse o era fuori, io c’ero senz’altro”. Un comitato per l’ordine e la sicurezza nazionali del tutto straordinario. “In quell’occasione parlavano… fecero ipotesi, Ciampi a sua volta stava, si trovava in argomenti non di Banca d’Italia da… e ricordo e qui bisogna dare atto ad alcuni fra cui io, quindi che avevo torto, in quel momento era in corso un contenzioso forte con gli ex territori della Jugoslavia, ne successero eh di cose del genere, Milano… e in sostanza allora la questione fu divisa, Parisi era per la mafia, disse che sicuramente questione di mafia, io e qualcun altro diciamo: potrebbe essere dall’estero, che siano stati i croati, così… sbagliato in pieno, da quello che poi avete visto, Parisi aveva ragione, ma Parisi probabilmente parlava perché qualcuno gli aveva soffiato”. Un evento, insolito, “tanto straordinario che io mi ricordo perfettamente, c’era Ciampi che non sapeva più… che pesci prendere”. “Dato il momento – continua Capriotti – se ne parlò tanto in quella notte, finì all’alba”. Col risultato che “i carabinieri e la polizia immediatamente intervenissero per vedere un po’ l’origine, dato che si parlava ed io sbagliavo insieme ad altri”. Tutto qua? Gli inquirenti contestano che si fece una riunione così straordinaria per decidere, infine, solo che le forze dell’ordine dovessero indagare? “E noi, noi abbiamo scartato qui una questione, che lo Stato si serve anche di una intelligence” conclude Capriotti. Al termine della riunione, all’alba, “anche in questa occasione, Di Maggio lo trovai di sotto, cioè Di Maggio non fu ammesso (…) quando scesi sì… ‘che avete deciso, che avete deciso?’” chiude Capriotti, ricordando le domande del suo vice.

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