18 Giugno 2017, 15:30
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PALERMO – Un impero. Così lo definisce Giuseppe Graviano. Un impero costituito soprattutto da appartamenti. Trenta o forse cento immobili.
Il forse è dovuto al fatto che il tanto loquace capomafia di Brancaccio, che dice tutto e il contrario di tutto, che parla di stragi e omicidi, proclamandosi sempre innocente, diventa riservato quando discute dei soldi di famiglia. Ai Graviano sono stati confiscati beni a raffica, compreso il San Paolo Palace Hotel che oggi è una struttura efficiente gestita dallo Stato in amministratore giudiziaria.
Cos’altro sono riusciti a nascondere le famiglie di mafia? Ogni tanto salta fuori un professionista come l’avvocato Marcello Marcatajo – e non è il solo – deceduto nei mesi scorsi, che avrebbe riciclato per una vita i piccioli dei Graziano-Madonia-Galatolo. Soldi frutto degli investimenti di trent’anni fa. In molti casi si è arrivati troppo tardi a scovare i rivoli di denaro che dal passato al presente, di passaggio in passaggio, sono diventati apparentemente puliti.
La moglie di Graviano diceva al marito che prima a Brancaccio giravano un sacco di soldi e adesso “c’è la fame”. La fame la fanno gli altri, non certo i Graviano. Una dinastia di mafia che nasconde chissà quali segreti. Ad un certo punto nelle conversazioni intercettate nel carcere di Ascoli Piceno fa capolino, ad esempio, il riferimento a una famiglia aristocratica che vive a Brancaccio: “… figurati io ero fuori… ho chiuso un affare con loro…”. Di cosa stesse parlando Graviano resta confinato al non detto di un boss che parla di tutto, ma non dei suoi soldi. E quando ne parla, guarda al passato.
Come quando “se non moriva mio padre… (Michele Graviano fu ucciso nel 1982. Fu uno dei caduti della fazione corleonese durante la seconda guerra di mafia ndr)… siamo tutti in Svizzera… perché mio padre aveva i belli soldini… aveva le belle proprietà… “. Le proprietà sono state tutte confiscate? Oppure ci sono dei beni sfuggiti alla mannaia delle misure di prevenzione? Che fine hanno fatto i 100 appartamenti di cui parla il capomafia? Anzi, centoquindici visto che fa riferimento anche a un terreno che il padre ha ceduto a un costruttore ricevendo in cambio una dozzina di case.
Anche un altro padrino – il Padrino – fin troppo loquace in favore di telecamera – Totò Riina – in carcere parlava a ruota libera con il compagno di passeggiata, Alberto Lorusso. “Perché se recupero pure un terzo di quello che ho sono sempre ricco”, diceva Riina. C’è un tesoro da scovare, dunque. “… ho fatto ventiquattro anni… di bella vita (il riferimento è alla lunghissima latitanza), di bella vita e di tutto… di tutto quello che c’era – aggiungeva -… tutti quelli che hanno le proprietà mie, tutti quelli che hanno i beni miei se li sono tenuti e se li tengono. Se li tengono e se li godono. Nessuno ha saputo. Nessuno lo sa. Nessuno sa tutte queste proprietà di.. Riina…”.
Resta da capire pure dove sono finiti i soldi dei Lo Piccolo di San Lorenzo, anche loro detenuti al carcere duro. I pm di Palermo non hanno mai smesso di cercarli. Ne hanno fiutato le tracce in Svizzera, Gran Bretagna e Lussemburgo. Gli anni del dominio dei Lo Piccolo sono gli ultimi in cui le casse dei clan erano traboccanti del denaro del pizzo. Quando il padrino fu arrestato a Giardinello i poliziotti della Mobile gli trovarono addosso la contabilità. Per il solo 2007 aveva incassato un milione mezzo di euro dalle estorsioni.
Le indagini e i racconti dei pentiti hanno descritto le figure di direttori di banca conniventi, spalloni che trasportavano denaro in contanti e di professionisti che reclutavano folti schiere di prestanome. Oggi per scovare le ricchezze dei boss di San Lorenzo si può contare sulle conoscenze del pentito di Carini Antonino Pipitone che ha svelato alcuni omicidi e altri ne potrebbe svelare.
Potrebbe sapere anche il motivo della riunione convocata da Salvatore Lo Piccolo in un ristorante a Torretta. Serviva la pace per gestire al meglio gli affari in una delle zone più ricche della provincia di Palermo, dove negli ultimi anni sono sorti decine di centri commerciali e fioccate le concessioni edilizie per costruire case, ville e residence. Come quello che stavano realizzando Antonio e Stefano Maiorana, i costruttori spariti nel nulla il 3 agosto 2007.
Tornando a Brancaccio nel 2010 i poliziotti della Squadra mobile seguirono le trasferte di Giuseppe Arduino. Per anni è stato l’insospettabile fattorino dell’Hotel San Paolo. Poi, si è scoperto che Arduino avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel clan di Brancaccio. C’era lui a bordo della Mercedes che il 23 dicembre 2010 uscì dal parcheggio dell’Az Trasporti di via Salvatore Cappello, azienda che sarebbe poi stata sequestrata perché riconducibile a Cesare Lupo, altro boss di Brancaccio.
Messina, Villa San Giovanni, autostrada Salerno-Reggio Calabria, Grande raccordo anulare di Roma e infine, nella notte, la macchina arrivò in via Santa Maria Goretti, quartiere Trieste, nel cuore dei Parioli, una delle zone più signorili della Capitale. All’altezza del civico 16. Arduino scese dalla macchina. Pioveva a dirotto. Dal bagagliaio prelevò alcuni pacchi. Dentro c’erano, secondo gli investigatori, i soldi della cosca. In quella casa abitava Nunzia Graviano. I soldi erano per lei. Come sono stati investiti?
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18 Giugno 2017, 15:30