Da Totò Riina al ritorno degli Inzerillo| Il romanzo criminale degli scappati

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09 Dicembre 2018, 06:00

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PALERMO- La parentesi corleonese della mafia è davvero chiusa. Almeno oggi, domani chissà. A spazzare via i residui dubbi sono le recentissime cronache giudiziarie. Degli Inzerillo Totò Riina voleva che sulla terra non restasse neppure il seme. Andavano sterminati tutti, uno dopo l’altro. Fu una strage. Piombo e lupara bianca: alla fine di morti se ne contarono ventuno. A cominciare dal potente boss di Passo di Rigano, Salvatore Inzerillo, che tutti chiamavano Totuccio.

Di sicuro gli scappati non solo sono tornati, ma i capimafia di oggi dialogano con loro. In particolare con Francesco Inzerillo, soprannominato “Franco ‘u truttaturi” e Tommaso Inzerillo. Il segno dei tempi è che la più autorevole voce del dialogo è quella di Settimo Mineo, fedelissimo di Nino Rotolo, e cioè del padrino di Pagliarelli che era pronto alla guerra pur di tenere gli scappati lontano dalla Sicilia. Francesco e Tommaso sono rispettivamente il fratello e il cugino di Totuccio Inzerillo il quale, dopo che i corleonesi massacrarono Stefano Bontate, credeva di poterla fare franca forte dei milioni dei dollari che era capace di fare circolare grazie agli affari della droga. Ed invece i killer attesero che scendesse dall’appartamento di via Brunelleschi dove si era intrattenuto con una donna. Non fece in tempo a salire sulla sua Alfetta blindata. I kalashnikov sfigurarono il suo corpo.

La caccia all’uomo si spostò anche in America. Il 14 gennaio del 1982 un funzionario di Polizia del New Jersey ricevette una telefonata anonima. Una voce gli indicava di andare all’hotel Hilton di Mount Laurel perché c’era una bomba in una macchina. Ed invece nel portabagagli trovarono il cadavere congelato di Pietro Inzerillo jr, fratello di Salvatore e nipote di Antonino Inzerillo. Quest’ultimo tornò in Sicilia convinto di vendicarsi. La commissione provinciale di Cosa nostra chiese la testa di Antonino Inzerillo, inghiottito dalla lupara bianca, in cambio della grazia per gli  scappati in America.

Trent’anni dopo, nell’ottobre del 2010 Rosario Naimo, divenuto collaboratore di giustizia, raccontò che Antonino Inzerillo fu massacrato in una salumeria di Brooklyn. Guerra conclusa. Gli Inzerillo non potevano mettere piede in Sicilia. Naimo era il garante del patto.

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Nel 1997 Francesco Inzerillo fu espulso dagli Stati Uniti e rimpatriato forzatamente in Italia. Nel 2014 anche Tommaso rientrava in Italia. Entrambi furono arrestati nel blitz Gotha del 2006. Francesco fu scarcerato nell’ottobre del 2011 e Tommaso nel novembre del 2013.

Prima del blitz Gotha si era rischiata la guerra. Rotolo era una furia: “Questi Inzerillo erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni… Se ne devono andare. Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti”. Gli scappati, invece, aveva un potente alleato: Salvatore Lo Piccolo, il barone di San Lorenzo. Rotolo non riuscirà a tirare dalla sua parte Provenzano, che prendeva tempo e cercava di mediare: “Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno – scriveva nelle sue lettere – a decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo”. La verità è che i soldi degli Inzerillo facevano e fanno gola. Soldi a palate accumulati grazie agli affari con le famiglie americane Gambino e i Calì.

Per toccare con mano cosa accadeva oltreoceano, su volere di Provenzano, partirono Nicola Mandalà, del clan bagherese che proteggeva la latitanza del padrino, e Gianni Nicchi, enfant prodige della mafia palermitana e figlioccio di Rotolo (sarebbe stato arrestato anni dopo dopo una breve latitanza). Ora i nuovi incontri con Settimo Mineo, il capomafia di Pagliarelli e “presidente” della nuova Cupola che si è riunita lo scorso maggio prima di essere decapitata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo. Mineo, un rotoliano di ferro che, però, ha smesso di odiare gli scappati.

 

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09 Dicembre 2018, 06:00

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