11 Aprile 2016, 19:04
2 min di lettura
PALERMO – “Mio padre non lo voglio toccato”, diceva Angelo Provenzano. “Tinto, buono… è stato un buon padre, è stato un padre meno buono, è stato sempre mio padre e non lo voglio toccato”. Il Corriere della Sera riporta una conversazione del 2005, dieci mesi prima che Bernardo Provenzano, venisse catturato nella campagne di Corleone. Era l’11 aprile 2006.
Oggi ricorre il decimo anniversario del blitz di Montagna dei Cavalli. I poliziotti guidati da Renato Cortese e coordinati dai magistrati Giuseppe Pignatone, Marzia Sabella e Michele Prestipino – oggi lavorano tutti a Roma – ponevano fine alla lunga latitanza del padrino corleonese.
Comune destino giudiziario per i padri, differente per i figli. Provenzano e Riina senior sono sepolti dagli ergastoli. I figli del capo dei capi hanno seguito le orme criminali del padre. Giovanni in carcere ci resterà per sempre, colpevole di quattro omicidi, mentre Salvuccio – l’uomo della chiacchieratissima intervista a Porta a Porta – di anni ne ha scontati otto e mezzo per associazione mafiosa. Angelo e Francesco Paolo Provenzano, invece, hanno la fedina penale immacolata. Mai stati processati. Angelo, oggi quarantenne, è stato ingaggiato da un tour operator per parlare di mafia. Francesco Paolo, 34 anni, si è laureato in lettere. Aveva studiato in Germania, ottenendo una borsa di studio. Poi, quando si seppe di chi era figlio, fu costretto a lasciare tutto e a rientrare in Sicilia.
Storie diverse quelle dei figli di Riina e di Provenzano su cui hanno pesato probabilmente le scelte dei padri. Binu li ha voluto tenere lontani da Cosa nostra. Possiamo intuirlo leggendo i passaggi di alcune recenti intercettazioni. Antonino Di Marco, considerato un mafioso di Palazzo Adriano, raccontava a Carmelo Gariffo, nipote di Bernardo Provenznao, di avere tentato più volte di avvicinare Angelo. Voleva che facesse pesare il suo cognome per impedire ad altri di fare la voce grossa. Gariffo gli spiegava che i suoi cugini, Angelo in testa, erano rimasti fuori dai giochi “volutamente perché mentre c’è stato mio zio presente, i suoi figli era giusto che si stavano, a posto loro, e devono stare a posto, perché basta uno non c’è bisogno di cento”. Bastava la presenza di Gariffo e di Rosario Lo Bue, considerato il capomafia di Corleone dove si vive sempre nel mito dei vecchi padrini.
Non tutti, però, a Corleone negli ultimi tempi gradivano la gestione di Lo Bue. Si era riproposto lo scontro fra le due anime della mafia corleonese. Quella intransigente di Riina e quella moderata di Provenzano. Ecco perché c’era chi, come Di Marco, attendeva con ansia l’uscita dal carcere di Giovanni Grizzaffi, nipote di Totò u curtu, che nel 2018 finirà di scontare una lunghissima condanna. “Se ci fosse Totò…”, ripetevano spesso.
Pubblicato il
11 Aprile 2016, 19:04