03 Maggio 2014, 23:55

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PALERMO- Ci voleva un muto per fare cantare Palermo. Ci voleva il gol di Franco Vazquez, inteso “El Mudo”, per liberare l’ugola repressa e seminare nella città derelitta un seme di speranza. “Dammi la gioia”, era la polemica scritta, scolpita sulla canottiera di un dimenticabile centravanti rosanero che la mostrò al suo popolo dopo un gol di rabbia. Dammi la gioia. Un’invocazione che è rimasta sepolta per un anno, nel cuore di pochi tifosi sinceri, negli svolazzi di molti gufi e di qualche avvoltoio che aveva preconizzato per il “Zampateam” (ipse dixit) un inesorabile purgatorio e addirittura un futuro di patimenti in serie B. Ora, la gioia è un piatto dolce da sgranocchiare, un’esplosione che comincia dagli spalti plumbei del ‘Piola’ di Novara e piomba, con una fiumana di gente, nell’epicentro di piazza Politeama.

La cronaca racconta che la festa ha inizio a pochi minuti dal fischio finale. Il Palermo dovrebbe prendere due gol dal Novara. E come faranno ‘sti volenterosi pellegrini? Mentre Lafferty ancora sgambetta, il primo motorino rosanero fa capolino su via Ruggiero Settimo. Sono in quattro e si dividono i compiti con pignoleria militaresca: uno guida, tre gridano. Dalle urla, pare di capire che c’entri in qualche modo il Catania, però non è sicurissimo. In via Bentivegna, nella chiesa di San Pietro e Paolo, si celebra un matrimonio. Gli sposi sono all’altare, in posa per foto e video. Appena fuori, dieci, tra parenti e amici, fanno finta di niente. Cioè, seguono gli sviluppi della partita via Internet sul telefonino – ahi, le radioline smarrite –, ogni dieci secondi scrutano dentro, per capire a che punto è la Messa. Uno ha una cravatta sospetta, tendente al rossazzurro. Infatti la faccia appare tinta di un velo di mestizia. Uno indossa il cravattone rosa, su abito rigorosamente nero. Sorride dalle orecchie alle caviglie, mentre un po’ guarda verso l’altare, un po’ il telefonino, un po’ via Roma che comincia a popolarsi di vetture imbandierate.

Il segnale d’avvio della celebrazione laica del ritorno in serie A viene dato da uno scoppio modello bomba atomica. E’ l’atteso incipit di un immutabile protocollo. In via Roma arranca uno sgangheratissimo autobus “Centouno” stipato come un uovo. Dai finestrini facce di ragazzi e bandierone assortite. Un giovanotto in sciarpa corre tra strada e marciapiedi. A ogni passaggio di macchina imbandierata alza la sciarpetta e recita il salmo: “Forza Palermo!”, dalle macchine rispondono con braccia che mulinano per abbracciare e mandare baci.

Si coglie nell’aria un raro sentimento di fratellanza. Noi palermitani attraversiamo le nostre giornate come lenti e difficili passaggi dietro le linee di trincee nemiche. Tutto ci minaccia: dal traffico, all’ambulante che vuole lavarci il vetro, al collega di clacson che ci guata in cagnesco, con l’inimicizia di uno che stia per mettere mano al cric. Oggi no. Siamo davvero fratelli. Gufi e avvoltoi. Tifosi veri o strisciati. Anime rosa e anime di un altro colore. La vittoria pallonara trascende l’evento sportivo, diventa una comunione di identità sparse. Oggi, finalmente, siamo tutti palermitani. E ci vogliamo bene. Non si contano i cani in tinta. Un perplesso barboncino scodinzola con la maglietta di Cavani addosso. Più partecipe un cucciolone nero con un fazzolettone rosa che condivide l’estasi del suo padrone che lo esibisce come un trofeo e lo presenta alla folla: “Si chiama Pif”. I turisti osservano con sgomento e chiedono spiegazioni sui motivi dell’adunata in piazza. Le bombe e gli scoppi punteggiano lo scorrere del tempo. Non si contano pure le magliette stratificate più ere geologiche: da Dybala e Abel H, a Migliaccio, passando per Corini. Uno mostra con orgoglio la magliettina stinta di Santino Nuccio. Chi ha mai dimenticato la rovesciata con la Juve Stabia che fu un assaggio di torta del Paradiso?

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In piazza Politeama il canovaccio della letizia supera, come è normale che sia, il limite della tascitudine. Ardimentosi bambini smontano le transenne intorno alla statua di Ruggiero Settimo. Sono guastatori di un esercito che si inerpica e si abbarbica al monumento. Un numero disparato di piedi saltella, mentre le bocche si uniscono nel consueto grido di battaglia avverso i cugini etnei, godendo della sfortuna di cui sono vittime. E’ logico che sia così: le grandi passioni sportive lambiscono fatti dinastici, offese di sangue, difese di territorio, perciò hanno bisogno di un nemico storico da umiliare al culmine della fortuna. Fu così anche dall’altra parte. Nessuno ha dimenticato gli sfottò, i cartelli con la lettera “B”, nel triste declino che condusse alla retrocessione dell’anno scorso. Cade una pioggia leggera. La sospensione di ogni regime urbanistico minimo è una realtà acclarata. Su uno scooterone sono in sette. Moglie e marito extralarge, più cinque bambini schiacciati e ridanciani, tra le pance e le schiene dei genitori. Un signore anziano e distinto non fa nulla a parte urlare. Nella sua Seicento, con le mani strette sul volante e le nocche sbiancate, urla e urla fino a diventare paonazzo. Forse è contento. Forse non ne può più della moglie e ne approfitta per dare sfogo a una rabbia lungamente repressa.

Ci voleva un muto per far cantare Palermo e per permettere al signore anziano di abbracciare il volante e sputare fuori tutto quello che aveva dentro. Ci voleva il ritorno in serie A per dare fuoco alle polveri di una città che vuole essere disperatamente felice e che in un sabato di maggio ha riscoperto il sapore della gioia, insolita compagna di viaggio. E pazienza se il nostro migliore panorama ha le sembianze di un pallone che rotola. Nel frattempo, aspettando che una delle tante mirabolanti rivoluzioni promesse vada in porto, potremmo pure accontentarci.

Anche dieci anni fa, nell’era di Francesco Primo (Guidolin), la scena fu simile, magari più vergine e più pura perché era la prima volta. Non c’erano troppi social in giro per narrare immagini, video e parole in tempo reale. Ma c’erano le stesse facce. E c’era un’intera casa di riposo affacciata al balcone. Un rappresentante sindacale del consesso domandò al cronista: “Scusi, perché c’è tanta confusione? Che è successo?”. Alla risposta: siamo in serie A, i vecchietti rincularono in forze e chiusero, sdegnosamente, le persiane. La notizia di un attacco alieno li avrebbe colti meno di sorpresa, tanto suonava impossibile l’idea. Ora non è più così impossibile, perché questo sapore l’abbiamo già gustato, ma è dolce gustarlo ancora. Su un balcone di piazza Politeama, c’è un bambino che sventola una bandiera.

Cade una pioggia leggera su Palermo. E’ il tre maggio 2014, giorno e anno del ritorno nell’unico paradiso al momento disponibile. E’ carico d’acqua e di risate il cielo dei vecchietti che non credevano e che adesso vedono l’apotesi da una terrazza un po’ più là, mentre gli onesti giocatori e l’onesto mister che realizzarono l’impresa volano per il ritorno alla volta di Punta Raisi. I muti cantano. Miracolo! Cade la pioggia a Palermo. Ogni goccia è lieve e noi la amiamo come se fosse una benedizione.

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03 Maggio 2014, 23:55

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