16 Giugno 2009, 09:59
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Ogni villaggio ha bisogno del suo scemo. Ogni epoca ha bisogno del suo boss. Totò Riina e Bernardo Provenzano hanno svolto egregiamente il loro compito. Ora tocca a Matteo Messina Denaro, il boss che scrive pizzini da filosofo e guru. Ogni comunità ha bisogno di specchiare il suo volto scuro nel ghigno di un cattivo, con cui intrattenere rapporti alterni: pubblica esecrazione e privata corrispondenza di morbosi sensi. E chi distingue più la veste creata dalla reale portata in carne ed ossa?
Il mito sanguinario dei corleonesi fu il riflesso corrusco di una stagione “pulp”. A Totò il macellaio, nell’immaginario, succedette Binnu il riflessivo. Moneta falsa, si intende, perché entrambi erano irredimibili carnezzieri di vittime e corpi innocenti. Ma conta ciò che la gente fantastica. E l’aplomb orrendo di Provenzano parve quasi un risarcimento logico dei moti e delle stragi di Totò. Ora c’è Matteo Messina Denaro, un predestinato che incarna perfino il dio dei tempi con l’ultima parte del suo cognome. Un mafioso edonista: foulard, fuoriserie, viaggi, occhiali scuri… E anche questo è un risarcimento, se uno ci pensa bene, alla fame monastica di Provenzano, inchiodato alla sua filosofia del pane e cicoria, allo squallore del potere che si ciba delle sue membra mistiche e mai di altro, per assaporarne fino in fondo la tragica essenza. Dunque, ecco il capo dalle sembianze di Lupin III che schizza su macchine potenti, puro riflesso del neo-edonismo dei tempi di cui rappresenta la faccia oscura e l’intima identità. Il capo. Uno che scrive pizzini socratici per dire che lui non se ne va, che resiste, perché ci sono persone che credono in lui. Lui resta fino alla fine, come Socrate rimase, invitto nei principi, fino all’ultimo, nella camera della sua morte, aspettando la cicuta. Ed è un vero peccato che tanto stoicismo andato al male si sia inopinatamente trasferito: dall’anima della filosofia agli occhiali di un crudele criminale.
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16 Giugno 2009, 09:59