26 Agosto 2018, 15:17
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Alla fine di questa storiaccia brutta della Diciotti, due terzi dei migranti “ostaggio” sulla nave verranno accolti nel territorio italiano, nelle nostre Diocesi, nelle nostre parrocchie, sebbene grazie “all’apertura del portafogli” da parte del Vaticano (il problema erano i soldi, o la sicurezza?). In compenso, per una settimana la nostra Guardia Costiera è stata “stressata” dalle uscite governative, e il Ministro dell’Interno ha guadagnato una prevedibile indagine a suo carico.
Alla fine di questa storiaccia brutta della Diciotti, insomma, quello che resta è un flop politico del capo del Viminale e della Lega, che ha accettato la carità non solo della vituperata Chiesa cattolica, ma anche di Irlandesi e Albanesi (interessati magari, questi ultimi, a mettere un piedino in quella Unione europea da cui, per qualcuno, l’Italia dovrebbe fuggire a gambe levate).
Ma se di flop si può parlare dal punto di vista dei risultati pratici – i migranti sono qui, non si è fatto un passo avanti nei rapporti con l’Europa, lo scontro istituzionale è fortissimo -, non altrettanto si può dire, probabilmente, dal punto di vista del consenso più puramente “elettorale”. Salvini piace, e anche di fronte a risultati magri come quello del caso Diciotti, piace sempre di più.
Piace la figura “forte” che si presenta come unica voce contro una serie di entità delle quali, per ragioni storiche o semplicemente per istinto, molti italiani diffidano: l’Europa, appunto, ma anche “certi giudici”, i politici del “politichese”, chi non “mette prima gli italiani”. Perfino l’inchiesta caduta sul capo del titolare del Viminale, anzi, dà fiato ed energia a questo consenso, come se Salvini, oggi non fosse alla guida del Paese (da vicepremier e leader di uno dei due partiti di maggioranza), ma in una eterna e promettentissima campagna elettorale. Se ne sono accorti, però, ormai anche gli alleati del Movimento cinque stelle, divisi sulla scelta di seguire Salvini sui temi strapopolari che stanno puntellando il suo consenso, o distinguersi, in qualche modo, lasciando da parte per un po’ i sondaggi.
E così, ecco che la Sicilia, ancora una volta, diventa teatro di un passaggio politico fondamentale. Svelando le più profonde crepe del governo “gialloverde”. Un governo, del resto, nato da una fusione fredda tra due entità che si erano fatte la guerra fino al giorno prima (basta dare una occhiata a qualche post rimasto indenne dalla cancellazione di vari esponenti grillini) e con a capo un premier che, solo per la magia della retorica non è un “abusivo”, nonostante, come altri in passato, non sia stato eletto da nessuno, e la cui nomina è il frutto, come in passato, di un accordo di Palazzo.
La Sicilia, dicevamo. È qui che si registra ad esempio l’uscita coraggiosa e lucida di Ugo Forello. “Adesso basta, si rispettino le leggi”, ha sostanzialmente ammonito il frontman dei grillini a Palermo rivolgendosi al “ministro degli Interni”. E alzando il velo su tutta quella parte di Movimento che da sempre, in passato, si era detto fautore dell’accoglienza, contro gli xenofobi della destra e che in questi giorni ha preferito magari tacere, per evitare un “caso politico” o – peggio – qualche epurazione. E le parole di Forello, del resto, ricalcano il concetto espresso dal presidente della Camera Roberto Fico, ma anche di qualche altro esponente grillino come Aldo Penna che ieri ha detto la sua, andando – anche se non del tutto – controcorrente.
Stamattina, mentre il quotidiano Libero – assai vicino a ‘Matteo’, come lo appella in un sommario in prima pagina – punta il dito contro la famiglia Di Maio in cui “fatica solo mammà”, ecco che il Fatto quotidiano, giornale certamente non ostile ai Cinquestelle, sottolinea il fallimento del ministro dell’Interno (“Salvini annega: cede e finisce indagato”). Un’analisi, quest’ultima, che si basa su alcuni dati di fatto.
Quell’Europa – insensibile e sotto certi aspetti inutile – che sarebbe stata “risvegliata” dal ruggito del vicepremier, infatti, si è voltata dall’altra parte e ha continuato a dormire, dicendo ancora una volta all’Italia: “Sbrigatela tu”. Confermando come le dirette su Facebook difficilmente incidono sui tavoli internazionali. E dire che poche settimane fa, mancavano solo le bighe e l’Arco di trionfo per accogliere il premier Conte, reduce da un incontro con i leader europei da dove, stando alla propaganda social, aveva portato a casa “grandi risultati”. Il caso Diciotti, dice però altro. E sottolinea ancora una volta la distanza tra le ricostruzioni da Istituto Luce 2.0 e la realtà, assai più complessa di un post sui social network.
Ed è lì, però, che rischia di impigliarsi il governo nazionale, come insegna la vicenda siciliana della Diciotti. Così, le “sparate” del tipo: “Non diamo più i soldi all’Unione europea” da parte di qualche ministro di spicco, vengono smentite da altri ministri piuttosto competenti in materia (“Siamo obbligati a farlo, per legge”). Del resto, in cinque mesi le contraddizioni non si contano più. Giusto per restare al Sud, ecco le “differenti vedute” tra il ministro per il Mezzogiorno Lezzi e i “partner” leghisti sulle grandi opere come la Tap. O basti ricordare le opposte considerazioni tra il ministro ai Trasporti Toninelli e il potente sottosegretario alla presidenza Giorgetti sulla nazionalizzazione delle autostrade italiane. E nuova benzina arriverà dall’incontro che Salvini ha già fissato nei prossimi giorni col leader ungherese Orban (che, per inciso, è a capo di un Paese che si rifiuta di partecipare proprio alla redistribuzione dei migranti).
E così, la Sicilia accende un campanello d’allarme evidente per i gialloverdi di governo. E i prossimi mesi non saranno semplici: la strettoia definita da un lato dalla manovra finanziaria in cui dovranno trovare spazio i germogli del reddito di cittadinanza e della flat tax, dall’altro dalla campagna elettorale per le Europee, rischia di creare nuove “rotture”. Intanto, il governo “incassa” il flop e cento migranti, e lo porta a casa insieme a un’indagine e a un nuovo imbarazzo. I legalitari grillini, da sempre “intransigenti” in materia, dovranno governare insieme a un indagato che siede insieme a loro tra i banchi dell’esecutivo. Già i social si sono scatenati, ricordando come Di Maio avesse invocato le dimissioni “in cinque minuti” dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano per una indagine per abuso d’ufficio. Qui, a dire il vero, tra le accuse contestate, c’è anche il sequestro di persona e l’arresto illegale. “Non ha violato il codice etico – lo ha difeso Di Maio – ma non si applaude ai pm solo quando arrestano i mafiosi”. La nuova crepa, la nuova contraddizione. Quanti danni fa la Sicilia…
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26 Agosto 2018, 15:17