Quei passi sull’ultima porta | La Samot fa trent’anni

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13 Dicembre 2017, 07:49

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E c’è l’ultima porta, quella più difficile. Un vaso di fiori alla finestra. Una stanza d’ospedale. Un rapido guizzo di sole. Una tendina bianca. Un letto addossato alla parete. C’è qualcuno che ami laggiù e sai che sta per lasciarti. Le prove tecniche della consolazione sono incessanti. Le parole vanno pesate come i silenzi. Mentre qualcosa si prosciuga, devi fingere un viso agghindato a festa. Ma chi giace ha già capito il gioco, perché porta avanti una sua personale trama di affettuosi inganni. Ognuno vorrebbe evitare all’altro la sofferenza, nella sua porzione di distacco, negli elementi del reciproco addio. Il corpo che sfuma e il corpo che rimane, l’impotenza dell’amore di non sapere fare altro che, inutilmente, amare.

Per questo, alla consunzione di ogni aggettivo umano, si spalanca un abisso di angoscia nella storia del fine vita, cioè della vita che finisce. Non c’è più niente da dire. Oppure, non sappiamo come dirlo. Ed è qui – nell’agra terra di nessuno – che intervengono loro, con le pratiche buone che hanno imparato a caro prezzo.

Cure palliative, con una intonazione di disprezzo, le chiamano gli aridi, come se la vita valesse appena nell’opportunità di una guarigione potenziale e in caso contrario fosse soltanto un’attesa solitaria dell’ineluttabile. Come se esistesse una bilancia senza cuore per misurare l’infinito. Il resto è una corale benedizione. Un dottore a presidio di un hospice palermitano racconta, confermando le diffidenze: “Mi telefonano dai reparti, quando per un paziente non c’è più niente da tentare e mi comunicano: per favore, vieni a prenderti una balena spiaggiata”.

Il dottore che racconta è uno dei coraggiosi combattenti che ieri hanno affollato Palazzo Steri per il trentesimo compleanno della Samot. Dal primo dicembre del 1987 i suoi professionisti si adoperano per rendere più lieve il transito dell’esistenza che giunge al suo compimento. Ma non è ancora morte, è vita che si vive. Trent’anni di battaglie, di lotte contro i mulini a vento del pregiudizio. Lunghissimi ed eroici anni, tra successi e qualche arretramento, per cucire la disperazione col filo della civiltà, per scansare la dottrina di chi cura l’intero arco costituzionale della salute – dal raffreddore al tumore – dimenticando le persone.

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“Abbiamo cominciato, seguendo l’esempio di realtà lontane – spiega Giorgio Trizzino, il papà di Samot, con i suoi colleghi di avventura Sebastiano Mercadante e Aurelio Calafiore – andai a Milano per imparare da fondazioni che si occupano di sollievo e di cure palliative. Avevamo ottime idee e neanche un centesimo. Ci venne incontro Guido Savagnone, un uomo lungimirante e generoso, direttore generale del Banco di Sicilia. Il Comune, con il sindaco Orlando, firmò una convenzione. Il cardinale Salvatore Pappalardo ci accolse in cattedrale per il primo convegno. Samot nacque così. Nel frattempo, abbiamo fornito assistenza a cinquantacinquemila pazienti”.

In platea, il sindaco Orlando, l’assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza, il rettore Fabrizio Micari, il già procuratore aggiunto Leonardo Agueci – tutti in partecipe ascolto dei lavori moderati dal giornalista Felice Cavallaro – e tanti operatori che narrano del quotidiano lavoro negli hospice – le strutture che danno riparo ai malati terminali – tra accenti di sconforto e di speranza, tra suggerimenti tecnici e diari accorati dello sfinimento. Loro danno calore ai corpi, salvando, incidentalmente, pure le anime.

“Cosa vuole un uomo che sta per andarsene? – racconta la dottoressa Cristina Bazzan che arriva da Genova – vuole conservare un ruolo, vuole lasciare un segno. E c’è spazio per gli sguardi, per i doni reciproci, per l’affetto”. La dottoressa Cristina è un’esperta di arteterapia. Cura il dolore con la bellezza.

La stessa bellezza che si espande, infine, grazie ai ragazzi del coro delle voci bianche del Teatro Massimo. Una breve concerto al culmine della giornata per tratteggiare sentimenti di serenità, nel cristallo dei giovanissimi timbri. E alimentare una speranza fragile come un’illusione. Come se l’amore potesse, davvero, trovare un senso, uno spiraglio, tra le lacrime inghiottite e i silenzi che si intrecciano  accanto all’ultima porta.

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13 Dicembre 2017, 07:49

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