Sangue, pentiti e tragedie | Intrighi mafiosi a Porta Nuova

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03 Luglio 2017, 06:12

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PALERMO – A Porta Nuova è un ribollire continuo. Almeno così pare. Con la parola rivugghio il dialetto palermitano fotografa al meglio ciò che accade in quello che fu il regno di Pippo Calò e che rappresenta il più importante mandamento mafioso della recente Cosa nostra.

Scalate al potere frenate con il piombo, gente che entra ed esce dal carcere, vendette annunciate con un telegramma, pentiti e aspiranti tali, dichiarazioni autentiche e altre che hanno il sapore del depistaggio, presunti mandanti di omicidi in libertà e gli immancabili tragediaturi.

Le indagini sull’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà offrono la cifra del caos. A cui fa da contraltare la calma piatta che segue gli omicidi. Perché nel mandamento che ingloba la parte centrale della città, compresi i mercati storici – Capo, Vucciria e Ballarò – chi sbaglia viene ammazzato. È accaduto prima a Giuseppe Di Giacomo e poi a Giuseppe Dainotti. Nessuna reazione al piombo. Chi ha armato i killer tiene in mano saldamente il bastone del comando. Inevitabile chiedersi se il caos attorno al delitto Fragalà sia studiato a tavolino.

Alcuni anni fa i carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale arrestano tre persone e ne indagano altre. Le prove, però, si sgretolano. Tutti scagionati. Anni dopo si pente Francesco Chiarello e si scopre che gli investigatori c’avevano visto giusto. L’inchiesta viene riaperta, tornano in carcere le stesse persone della prima volta, assieme a nuovi presunti colpevoli.

Impossibile che tutto fili liscio. Succede allora che uno degli arrestati, Antonino Siragusa, mette sul piatto una nuova verità che smentisce Chiarello. E se fosse una strategia per mandare all’aria il buon lavoro degli investigatori?

Il primo giugno scorso dal carcere si alza una nuova voce. Salvatore Bonomolo, boss di Porta Nuova, si è pentito. Per prima cosa dice che la versione corretta è quella di Chiarello. E da chi lo ha saputo? Da Giuseppe Auteri, scampato all’arresto perché contro di lui ci sono solo le dichiarazioni di Chiarello. Stessa cosa per Gregorio Di Giovanni, che di Porta Nuova è stato il capomafia, accusato di essere il mandante dell’omicidio del penalista. Colui che avrebbe dato l’incarico del pestaggio al suo delfino, Francesco Arcuri. Ha finito di scontare la pena ed è di nuovo libero. Libero come il fratello, Tommaso Di Giovanni, che lo sostituì alla guida del mandamento durante l’assenza forzata. Scarcerati come Dainotti che forse ha pagato con la vita la voglia di riprendersi ciò che la lunga detenzione per omicidio ritenesse avergli tolto.

Gregorio Di Giovanni e Arcuri nell’estate 2015 furono sorpresi in un bar a Mondello. “Mica era un summit di mafia, ma solo il momento e il posto giusti per mangiare un’arancina”, dissero i loro legali quando il capomafia e il suo uomo di fiducia furono fermati a Mondello. L’incontro, però, non venne giudicato sintomatico di una frequentazione abituale fra uomini di Cosa nostra. E così furono assolti dall’accusa di avere violato le prescrizioni della sorveglianza speciale.

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Siragusa sostiene che a picchiare Fragalà con il bastone sia stato Antonino Abbate, che non è l’ultimo arrivato. Prima di finire in carcere è stato il capo della famiglia del Borgo. Se Siragusa mentisse seguendo una precisa strategia per picconare le indagini qualcuno dovrebbe averlo autorizzato. Non si fa il nome di un Abbate a cuore leggero, anche se potrebbero esserci motivi di risentimento nei confronti di un clan numericamente bene assortito e organizzato.

Di Giovanni e Abbate, ma anche Di Giacomo, Milano e Lo Presti: a Porta Nuova si ragiona ancora per potentati di Cosa nostra. Dal carcere Giovanni Di Giacomo, killer ergastolano del gruppo di fuoco di Pippo Calò, progettava la vendetta per l’assassinio del fratello Giuseppe, morto ammazzato alla Zisa. Aveva ricevuto un telegramma in carcere. Il mittente era il fratello Marcello: “Caro Gianni la salute del bambino tutto bene in unico abbraccio ti vogliamo bene”. Secondo gli investigatori, altro non era che la comunicazione dell’imminente messa in atto del piano di morte. il blitz dei carabinieri bloccò la vendetta.

Chiarello sa che il movente del delitto Di Giacomo è da ricercare nel furibondo scontro che Di Giacomo ebbe con Tommaso Lo Presti, uscito dal carcere con il mandato di comandare, e ora di nuovo detenuto. Proprio come la moglie Teresa Marino. Di Giacomo, secondo il pentito, si era macchiato di una colpa grave, non aiutando le famiglie dei detenuti. Il malcontento era diffuso. L’ordine per l’omicidio, così Chiarello dice di avere saputo da Marcello Di Giacomo – altro fratello della vittima – con il benestare dei Milano (“traditori” li avrebbe definiti Marcello Di Giacomo). L’esecutore materiale sarebbe stato il più giovane dei Lipari (Emanuele ed Onofrio Lipari, padre e figlio, sono finiti in manette assieme a Tommaso Lo Presti e Marcello Di Giacomo).

Un vorticoso giuro di presunti tradimenti che qualche tempo fa ha prodotto una scena degna di un copione cinematografico. I Lipari erano collegati in videoconferenza dal carcere per evitare per evitare contatti con Di Giacomo che, così hanno svelato le microspie dei carabinieri, su di loro voleva scaricare la sua collera. Onofrio Lipari sentì la necessità di prendere la parola per spiegare che lui non ha “motivi di astio contro nessuno e nessuno né ha contro di me”.

A Giovanni Di Giacomo non era piaciuto l’atteggiamento dei Lipari, ritenuto “troppo distante”, e il loro obiettivo di mettere le mani sugli incassi delle sale scommesse del fratello. E così ordinò al fratello di riferire a Tommaso Lo Presti, che nel frattempo era tornato a comandare, di uccidere i Lipari: “… si preparano fanno l’appuntamento e mentre c’è il discorso fanno bum bum e s’ammogghia tutto”. Lo stesso Lo Presti che, ipotizzando il più classico dei voltafaccia, potrebbe avere “tradito” i Di Giacomo. Almeno così raccontano di avere saputo Francesco Chiarello e Vito Galatolo. Dichiarazioni sempre e solo de relato che non hanno la forza delle prove.

Giovanni Di Giacomo non è nuovo alle tragedie. Ne ha ideata un’altra forse per sbarazzarsi di Nunzio Milano, storico boss di Porta Nuova, che una volta tornato in libertà avrebbe potuto minare la leadership del fratello Giuseppe. E così L’11 gennaio 2013 l’ ergastolano incontra il fratello – in quel periodo Alessandro D’Ambrogio è il capo mandamento di Porta Nuova – e gli racconta di avere avuto un breve colloquio in carcere con “Vaviettu (soprannome di Milano)… qua mi ha visto… era tutto impacciato… sai quando uno ha il carbone bagnato… io lo guardavo fisso…”. Poi, la frase più importante: “Ora… lui… fra un mese dice forse dovrebbe uscire… prende e mi fa a me… digli a tuo fratello che si deve tirare indietro…”. Infine consiglia di cercare in D’Ambrogio un alleato per frenare Milano. Perché D’Ambrogio “sa quello che deve fare”. Tutto, però, si baserebbe su quel faccia a faccia carcerario. Un faccia faccia che potrebbe non essersi mai verificato. La direzione del carcere, infatti, disse che Milano e Di Giacomo erano detenuti in due edifici diversi. Due sezioni con due circuiti penitenziari diversi. Insomma, era impossibile che si fossero incontrati.

Il delitto Di Giacomo resta irrisolto e pure quello di Dainotti. Stessi mandanti e stessi killer? Di certo c’è lo stesso silenzio nonostante il rivugghio. E pure il fatto che non si spara se la posta degli interessi in gioco non è alta.

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03 Luglio 2017, 06:12

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