05 Ottobre 2016, 04:58
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CATANIA – Altro che processo lumaca. La sentenza d’appello del processo che vede Orazio Finocchiaro alla sbarra con l’accusa di essere uno dei “capi” del clan Cappello Carateddi è arrivata in pochi mesi. La Corte d’Appello, presieduta da Carolina Tafuri, ha confermato la condanna a 12 anni per mafia che gli era stata inflitta meno di un anno fa dal tribunale di Catania. A differenza del processo di primo grado dove l’imputato assisteva attraverso il collegamento in video conferenza, Orazio Finocchiaro ha potuto partecipare di persona all’udienza che si è aperta con le arringhe difensive degli avvocati Giuseppe Marletta e Francesco Strano Tagliareni. Nella scorsa udienza, a Luglio, era stato il Pg Chillemi a chiedere alla Corte la conferma del verdetto del Tribunale.
Nessun nuovo elemento è stato portato al processo d’appello: Procura generale e difesa si sono confrontati sull’apparato probatorio emerso nel corso del procedimento di primo grado. Monte accusatorio che ha convinto anche i giudici d’appello sulla colpevolezza di Orazio Finocchiaro, in carcere da diversi anni. Il boss è finito in manette nel 2009 nel maxi blitz Revenge che aveva sventato una guerra tra clan ingaggiata da Sebastiano Lo Giudice, capomafia della frangia dei Carateddi, contro i Santapaola. Inoltre Finocchiaro sta affrontando un altro processo, nel pieno del dibattimento, per traffico di droga.
Per la magistratura il carcere però non avrebbe fermato le ambizioni criminali di Finocchiaro che avrebbe negli anni tenuto solidi contatti (attraverso lettere e missive) con i nomi di rilievo della consorteria criminale dei Cappello e anche di altri clan criminali, come Andrea Nizza e Nuccio Mazzei. Ad Orazio Finocchiaro sarebbe andato il timone del comando visto che i capi erano tutti al 41 bis. E sarebbe stato lui stesso ad informare gli affiliati. Una lettera consegnata alla magistratura dal pentito Natale Cavallaro contiene un messaggio di saluto proprio di Finocchiaro che “comanda tutto e tutti”. Un ruolo avrebbe avuto la benedizione del “compare” che non era libero (per l’accusa è Sebastiano Lo Giudice, il boss dei Carateddi). Nel processo è finita anche un’intercettazione in cui la madre dell’imputato legge a voce alta a casa di Giovanni Musumeci una missiva inviata dal figlio detenuto in cui impartisce ordini per la sua piazza di spaccio. La difesa ha più volte evidenziato che questo elemento è già nell’impianto probatorio di un altro processo.
Non può mancare un passaggio sul caso dei due “pizzini” in cui era contenuto l’ordine per un progetto di attentato (mai eseguito) nei confronti del pm Pasquale Pacifico. La “prova” della paternità dei pizzini non è mai arrivata: questo aspetto è evidenziato anche nelle motivazioni del tribunale di primo grado. Vedremo se la Corte d’Appello motiverà in modo differente. Quei messaggi finirono nelle mani di Giacomo Cosenza, che li consegnò nelle stesse mani del pm da “crivellare di colpi”. La difesa ha smontato l’attendibilità del Cosenza, portando anche la decisione del Tribunale del Riesame in merito all’inchiesta Prato Verde.
Nel processo di primo grado si sono susseguite perizie su perizie. Il collegio di consulenti nominato dal Tribunale escluse la compatibilità tra la calligrafia di Orazio Finocchiaro e quella usata per scrivere i pizzini, mentre dichiararono “una discreta probabilità” di compatibilità con il saggio grafico di Cosenza. Conclusione a cui era arrivata anche il perito della difesa, ma che era stata invece ritenuta “priva di fondamento” dai Ris. Ad un certo punto entra di scena l’ipotesi dello “scribano”: la comparazione calligrafica in fase di indagine fu svolta dalla Polizia Scientifica tra i bigliettini e alcune lettere scritte nell’interesse di Orazio Finocchiaro, detenuto nella casa circondariale di Tolmezzo ad Udine. Due grafie ritenute compatibili anche secondo l’avvocato Giuliano, il perito nominato dall’accusa durante il processo di primo grado.
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05 Ottobre 2016, 04:58