Cronaca

Scarpinato-Meloni, scontro sulle ombre nere della (in)giustizia

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30 Ottobre 2022, 06:00

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PALERMO – Nulla di nuovo sotto il sole. Almeno per chi segue, ormai da anni, le cronache giudiziarie e i punti di contatto con la politica. Il discorso del neo senatore, ed ex magistrato, Roberto Scarpinato e la replica del presidente del Consiglio Giorgia Meloni non colgono di sorpresa.

Per due motivi. Primo: sono anni che vengono condotte inchieste e celebrati processi sulle trame oscure, anzi nere, che si addensano sulla stagione delle stragi mafiose del ’92 e ’93. Secondo: Scarpinato è stato scelto dal Movimento 5 Stelle per fare ciò che ha fatto in occasione del dibattuto sulla fiducia. Non ha recitato, è stato se stesso.

Nei mesi antecedenti alla scelta dell’ex premier Giuseppe Conte di candidarlo con la certezza dell’elezione, l’ex procuratore generale di Palermo si è preparato il terreno. Lo status di pensionato ha liberato il suo pensiero dagli obblighi imposti dalla toga.

Ha criticato i giudici che hanno assolto i carabinieri nel processo sulla trattativa Stato-mafia. O meglio li ha accusati di avere “fatto sparire” una sfilza di argomenti dalla motivazione. Specie quelli sulla strage Borsellino che a suo dire, circostanza mai processualmente provata, sarebbe stata accelerata dal fatto che il giudice avesse scoperto che pezzi delle istituzioni trattavano con Totò Riina.

Scarpinato si era spinto a dire che i “magistrati che più si sono spesi per dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi del 1992-’93 hanno patito il comune destino di essere ostracizzati ed emarginati in vari modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e financo penali, altri nel mirino di prolungate campagne di delegittimazione”.

Francamente si fatica a cogliere l’ostracismo e la delegittimazione. Nessuno dei pubblici ministeri che hanno indagato sulle stragi, direttamente o indirettamente, è stato frenato nelle inchieste e nella carriera. Sono anni che si celebrano processi, nelle aule giudiziarie e pure nei talk show televisivi, che si pubblicano libri e si producono film.

L’attenzione è stata altissima su certi argomenti, finendo per dare vita ad una narrazione imperante che ha visto la nostra Repubblica popolata, solo ed esclusivamente, di manigoldi in divisa e servitori infedeli.

Scarpinato, come altri magistrati, ha avuto la possibilità di scandagliare certi temi. A cominciare dall’inchiesta sui cosiddetti “sistemi criminali”. Era il 2001 quando il pool di pm da lui coordinato scriveva che “non sembrano essere stati acquisiti, allo stato, elementi probatori tali da ritenere integrata la fattispecie…”.

Quelle due parole, “allo stato”, erano l’eredità che una parte dell’antimafia siciliana ha raccolto. Il reato contestato e non provato era che due associazioni criminali, una sovversiva e l’altra mafiosa, avessero incrociato i loro destini.

L’inchiesta prendeva le mosse da una informativa della Direzione investigativa antimafia del 4 marzo 1994 “concernente un’ipotesi investigativa in ordine ad una connessione tra le stragi mafiose di Capaci e via d’Amelio, con gli attentati di Firenze, Roma e Milano per la realizzazione di un unico disegno criminoso che ha visto interagire la criminalità organizzata di tipo mafioso, in particolare cosa nostra siciliana, con altri gruppi criminali in corso di identificazione”.

L’ipotesi dei pm, che la definivano “sufficientemente accertata”, era che fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992 si svolsero riunioni fra i capi di Cosa nostra per “l’approvazione di una profonda ristrutturazione dei rapporti con la politica”.

Si lasciavano alle spalle i vecchi referenti e puntavano sulla creazione delle condizioni per fare sorgere nuovi soggetti politici con cui condividere gli interessi del sistema criminale. Si ipotizzava che il piano potesse essere realizzato soffiando sul fuoco del separatismo voluto dalla Lega Nord per spingere la secessione della Sicilia e delle altre regioni meridionali e avere campo aperto.

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Da qui il fiorire di leghe meridionaliste, sponsorizzate dai boss. Registi delle manovre erano i capimafia – Riina, i fratelli Graviano, Santapaola ed Ercolano – mentre i soggetti “esterni” erano individuati in Licio Gelli per la P2 e Stefano Delle Chiaie per la destra eversiva.

La strategia d’attacco di Cosa Nostra, iniziata a Palermo con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima nel 1992, veniva considerata l’attuazione del programma criminoso di un’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine costituzionale.

Ecco perché non sorprende il discorso di Scarpinato in Senato, quando ha sostenuto che il fascismo in Italia si è trasformato in quel neofascismo che fu alla base della strategia della tensione e dello stragismo in Italia e che la mafia è ancora ben lungi dall’essere debellata in questo Paese anche per le protezioni politiche che continuerebbe a ricevere.

Meloni ha replicato parlando di “approccio così smaccatamente ideologico” da parte di Scarpinato. “Purtroppo mi stupisce fino a un certo punto perché, vede, l’effetto transfer – ha aggiunto il premier – che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico dei teoremi con cui parte della magistratura ha costruito processi fallimentari a cominciare dal depistaggio nel primo giudizio per la strage di via D’Amelio”.

In realtà Meloni si è sbagliata sul punto, visto che Scarpinato non ha indagato sulla strage Borsellino. Non è fra i magistrati che si sono bevuti, senza batter ciglio nonostante ci fossero tutti i segnali per smascherarle, le bugie dei pentiti come Vincenzo Scarantino. Se depistaggio c’è stato, i depistatori hanno approfittato della distrazione collettiva di decine di magistrati.

Al di là di ciò bisogna ammettere, anche a costo di correre il rischio di essere tacciati di simpatie meloniane, che una certa magistratura in Italia è apparsa ideologicamente indirizzata verso alcune indagini. La magistratura si è sentita depositaria della verità. Nessuno, ad esempio, ha chiesto scusa per i tanti processi divenuti carta straccia dopo che sono state svelate le imposture dei falsi pentiti nelle indagini su via D’Amelio.

La magistratura ha ritenuto di possedere il dogma dell’infallibilità. E quando le Procure hanno perso i processi hanno tirato fuori le colpe dei mascalzoni di Stato, le ombre dei servizi segreti e deviati, e dei depistatori. Eppure, nel caso di Vincenzo Scarantino, sono stati dei magistrati in tre gradi di giudizio a sostenere e credere che un malacarne di borgata avesse partecipato alla fase deliberativa della strage Borsellino assieme ai sanguinari corleonesi.

No, nessuna sorpresa per le parole di Scarpinato, scelto per pronunciarle da chi è convinto che un magistrato sia per forza di cose anche un buon politico. Da chi sceglie una toga aggrappandosi alla convinzione, quantomeno anacronistica, che occorra candidare un magistrato per sentirsi e mostrarsi migliori degli altri.

Scarpinato, al suo primo discorso, che non difetta certo di seduzione oratoria, porta in parlamento le stesse idee che aveva da magistrato.

Ben venga, a condizione che il parlamento non sia il luogo dove riproporre idee che non si è riusciti a provare nei Tribunali. Le stesse idee che alimentano processi eterni nelle aule di giustizia. E i processi si vincono con le prove e non con le idee, che altrimenti diventano teoremi. Nessuno si sogni di limitare l’esercizio dell’azione penale, ma i processi sine die sono inaccettabili.

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30 Ottobre 2022, 06:00

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