Dove nascono gli abiti | e le scene del Massimo

di

23 Ottobre 2017, 05:58

5 min di lettura

PALERMO – Dietro il palcoscenico del Teatro Massimo c’è una zona a cui accedono solo gli addetti ai lavori. Si entra da un cancello contrassegnato dal numero 11 e si arriva in corridoi in cui si mischiano uffici amministrativi, magazzini e stanze in cui si costruisce la creatività. Sono i suoni, la cosa che si nota di più. Quelli degli strumenti, con i professori d’orchestra che provano nelle stanze della zona riservata agli artisti. E quelli di martelli, trapani, legname che vengono del reparto allestimenti, gli artigiani che preparano le scenografie e gli abiti che gli spettatori vedranno sul palco. In scena ci vanno anche loro, anche se non con il corpo.

Il Massimo è uno dei pochi teatri rimasti in Italia a produrre in proprio gli allestimenti scenici. Significa che la maggior parte delle opere, anche quelle di repertorio come la Tosca, il Turandot, la Madame Bovary, non sono affidate a professionisti esterni ma da artigiani che lavorano per il Massimo. I palermitani lavorano ancora con l’allestimento all’italiana, con fondali e quinte dipinte a mano e pochissime scenografie intelaiate. Una tradizione che viene esportata in tutto il mondo, soprattutto nel caso degli scenografi esecutori, che dipingono tele da più di venti metri.

“Gli italiani sono gli unici che ancora dipingono a mano, e a livello di eccellenza”: Renzo Milan, direttore degli allestimenti del Massimo, ha il compito di coordinare tutti gli artigiani che ruotano intorno alla preparazione delle scene, badando anche ad aspetti come la quadratura dei conti, la logistica e il rispetto dei tempi. In questo momento Milan sta pensando all’allestimento di un’Aida che andrà in scena nel 2019: “Abbiamo pronti i bozzetti, e verrà fatto tutto come a fine ottocento”. Una scelta diversa dalle tendenze recenti, che hanno visto un inserimento sempre più massiccio di tecnologia nelle produzioni teatrali, con proiezioni in 4D e oggetti realizzati con stampanti tridimensionali. E Milan non è contrario a questa direzione: “Solo – dice – ogni tanto fa bene bilanciare questa tendenza, inserendo qualcosa di più tradizionale. È un modo per ricordarci da dove veniamo”.

> DOVE NASCE LA MAGIA, GUARDA LE FOTO

La storia del Massimo viene portata in scena anche attraverso il patrimonio di allestimenti, scenografie e costumi che vengono rivisitati e riutilizzati di continuo. Il compito di Milan e della sua squadra, in questo caso, è simile a quello dei filologi, rintracciando le antiche scenografie e valutandone lo stato di conservazione. “In questo momento – dice Milan – usiamo anche un allestimento del 1958, quello che Zeffirelli realizzò per ‘La figlia del Reggimento’. È ancora attualissimo, anche se ogni tanto bisogna riprendere qualche fondale”. Ci sono scenografie, poi, che vanno ridipinte perché i colori sono vecchi o le tele sono ridotte a brandelli e non possono più essere riutilizzate, o altre prese a noleggio che vengono ritoccate per adattarsi al palcoscenico del Teatro Massimo.

Articoli Correlati

Il cuore di tutte queste attività si trova a Brancaccio, in un capannone ai margini dell’autostrada. Per raggiungerlo si deve lasciare viale Regione e infilarsi in un percorso fatto di rampe, svolte e un passaggio davanti a una delle peggiori discariche abusive di Palermo. Oltrepassato il cumulo di frigoriferi e divani sfondati la città, come fa spesso, cambia scenario di colpo, si infila in mezzo a un agrumeto e finisce davanti al vecchio stabilimento di conserve in cui dagli anni sessanta si costruiscono i fondali, gli oggetti di scena e le armature in legno di tutto quello che va in scena per le produzioni del teatro Massimo.

Il lavoro qui si fa con tele bianche da venti metri per diciotto, che dopo un lungo lavoro di preparazione vengono dipinte con pitture preparate nella “cucina colori” mischiando pigmenti in polvere con acqua e colla. A dipinto finito, ogni tela viene cucita a mano con un lavoro che ricorda quello dei maestri velai e confezionata con staffe e anelli per la messa in scena. Ma nel laboratorio di Brancaccio si lavora anche con legno, polistirolo, schiume in poliuretano e tutti gli altri strumenti che, modellati e scolpiti, compongono una scena teatrale. “Nel nostro laboratorio dobbiamo avere sensibilità artistiche eterogenee – dice Christian Lanni, capo del reparto scenografia – ogni nuova produzione è una sfida, e ci troviamo sempre a rispondere a stimoli artistici diversi. Ci sono opere che richiedono la realizzazione di molti bassorilievi e sculture, mentre altre richiedono metri e metri di tele dipinte”. Lavoro, quest’ultimo, che sempre meno persone fanno, in Italia: “Siamo rimasti in pochi, purtroppo – dice Lanni – molti teatri hanno chiuso i loro reparti per la crisi”.

Anche la scenografia all’italiana deve misurarsi con la tecnologia: “La scenografia odierna è più cinematografica, richiede precisione – dice Lanni – una volta la pittura puntava all’impatto. Oggi invece, con la macchina da presa sul palcoscenico, siamo costretti a dare molto dettaglio, di cui magari lo spettatore in sala non si rende conto”. E a cambiare sono anche i gusti degli scenografi, che al fondale dipinto preferiscono opere più minimali, basate su materiali come il metallo e la plastica. “Ogni nuova opera è un caso a sé, ci sono sempre nuove soluzioni da inventare – dice Lanni – qui siamo un po’ come dei chimici, proviamo sempre nuove cose, e siamo contenti quando possiamo passare le nostre conoscenze ai giovani che vogliono imparare questo mestiere”.

> DOVE NASCE LA MAGIA, GUARDA LE FOTO

Spesso c’è un malinteso, tra le persone che vogliono lavorare per il Teatro Massimo. A spiegarlo è Marja Hoffmann, direttrice della sartoria, tedesca ma palermitana d’adozione da più di trent’anni: “Molti sono convinti che faranno i costumisti, i creativi, ma noi interpretiamo le idee di altri. Qui c’è molto duro lavoro da fare”. Un lavoro da artigiani pazienti e meticolosi, quello di Hoffmann e della sua equipe, che consiste sia nel preparare costumi originali basandosi sui disegni dei costumisti, che nell’adattamento continuo di costumi già pronti. “A volte cambiano i tempi e il gusto degli spettatori e bisogna adattare gli abiti – dice Hoffmann – ma altre volte ci sono proprio problemi pratici. Magari qualcuno si ammala e bisogna preparare un abito per il sostituto, oppure, come succede più spesso, i cantanti cambiano taglia”. Una volta, ricorda Hoffmann, si lavorava molto anche sui processi che precedevano la confezione, come la tintura: “Oggi questo lavoro si fa meno e si comprano tessuti già pronti. Ma è un peccato, perché vediamo una scena uguale alla vita reale e in questo modo si perde la magia del teatro”. Qualcosa si è perso, nel teatro moderno. Ma il Massimo ha conservato più che poteva, tenendo la sua squadra di artigiani e permettendo la trasmissione di una tradizione.

Pubblicato il

23 Ottobre 2017, 05:58

Condividi sui social