05 Agosto 2013, 06:00
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PALERMO – Tra una denuncia e un viaggio della speranza a Roma, il presidente Crocetta perdeva per strada pezzi di consenso. Di maggioranza. Di opinione pubblica. Tra una plateale – anche quando sacrosanta – denuncia e un – seppur necessario – viaggio nella Capitale, il governatore smarriva pezzi di Sicilia. Una Sicilia che appena pochi mesi fa s’era trovata al suo fianco. Dopo le macerie e i danni lasciati in dote dai governi precedenti. Ma che oggi chiede di risollevarsi da quelle stesse macerie. Di costruire.
Ma il governatore per il momento demolisce. Abbatte i fortini del malaffare della Formazione. Salvo poi stilare un Piano professionale che non fa che sostanzialmente ricalcare, per corsi e soggetti destinatari – con uno sconto di qualche milione – il vituperato Avviso 20. Mette sottosopra i dipartimenti. Ma i sindacati e gli addetti ai lavori raccontano di una amministrazione completamente immobile. Riesuma vecchie storie sulla Sanità, sbandiera un disegno di legge contro la parentopoli, negli stessi giorni in cui ventimila precari attendono, semplicemente, di sapere se dodici ore dopo potranno recarsi ancora a lavoro.
Ma oggi, a differenza dei primi mesi dell’era Crocetta, quando al nuovo presidente non solo si perdonava tutto (compresa qualche “imprecisione” o qualche sparata al limite del romanzo di fantascienza), la fiducia, la curiosità per un “nuovo” modo di fare politica, sembra scemata, scolorita, insieme all’uscita dal palinsesto Rai dell’Arena di Giletti
Crocetta, oggi, è molto più solo di dieci mesi fa. Aveva un tesoretto mediatico-politico sperperato tra annunci e improvvisazioni. Tra contraddizioni e marce indietro. In una campagna acquisti che ha annacquato la rivoluzione nella bacinella del vecchio trasformismo. Ha convinto in tanti a cambiare idea.
Giusto per infilare una breve carrellata. L’inoperosità e l’inefficacia del governo Crocetta sono stigmatizzate da sindacati come Cgil e Cisl. Da associazioni come la Confcommercio siciliana, dai rappresentanti di varie associazioni di categoria. Ma non solo. Tra una denuncia e un viaggio a Roma, Crocetta ha perso per strada la maggioranza. Che oggi, non c’è più. Perché nel frattempo – ognuno, dal canto suo, lo giudichi pure un bene o un male – il governatore ha bruciato il credito insolito e unico in Italia del Movimento cinque stelle. Il capogruppo dei grillini, pochi giorni fa, sedeva persino, in occasione di una conferenza stampa, accanto agli uomini del vituperato – a volte con buone ragioni – centrodestra siciliano. Quei deputati rappresentavano la bellezza di 43 parlamentari dell’Ars. Quasi la somma necessaria per sfiduciare il presidente. E a quelli, al netto delle prese di posizione ufficiali, possono essere serenamente aggiunti esponenti della maggioranza come i crisafulliani e i renziani del Pd, esponenti dell’Udc, e tra qualche settimana, anche qualche esponente dei nuovi gruppi sorti a sostenere l’ormai fragile trincea del presidente. Se non ci sarà rimpasto, saranno guai. “La mia maggioranza? – ha ammesso in conferenza stampa lo stesso Crocetta – direi che è solida per certe questioni, molto meno solida per altre”.
Già. Su certe questioni, la maggioranza non c’è. E certi segnali, emersi già la settimana scorsa, non possono non fare riflettere il governatore. Il governo designa i nuovi vertici dell’Irsap, “snobbando” la Commissione all’Ars. Ed ecco che il parlamento sanziona Crocetta con un ordine del giorno con cui chiede la sospensione di quelle nomine. Un ordine del giorno approvato all’unanimità. Passano ventiquattro ore. Il presidente della Commissione affari istituzionali Marco Forzese, in Aula, allarga le braccia: “Non siamo riusciti – spiega – a superare in commissione i dubbi di incostituzionalità della legge antiparentopoli”. Dubbi sollevati fortemente anche dall’Udc. Un alleato del governatore. E non mancano i continui “rimproveri” alle ostinate latitanze degli assessori. Alcuni di loro quasi mai in parlamento.
Lì però, oggi, la maggioranza non c’è. E l’impressione è che il vero ostacolo che non consente il “liberi tutti” sia lo status stesso di deputato. Al quale nessuno, in Aula rinuncerebbe a malincuore. Lo stesso ostacolo, per intenderci, che impedì nella scorsa legislatura di sfiduciare Raffaele Lombardo. Salvo poi consentire una fine anticipata, utile per ripresentarsi in novanta – e non in settanta, come avrebbe stabilito la legge in discussione a Montecitorio e approvata troppo tardi – al portone di Palazzo dei Normanni. “Se continua così però – la ‘promessa del capogruppo grillino Cancelleri – io non me la sento davvero di tenere la spina attaccata al governo”.
Se continua così, dice Cancelleri. E il riferimento, manifestato anche da altri suoi colleghi all’Ars (e, si badi bene, non parliamo solo dell’opposizione…) è all’operato di un governo finora fondato sugli annunci. Spesso contraddetti. Dalla vicenda Muos, per intenderci. Quando si stabilì la revoca dell’autorizzazione, Crocetta brindò a una vittoria del suo governo. Quando, invece, la decisione fu capovolta, ovviamente, la sconfitta non era più addebitabile all’esecutivo: “Non avevamo scelta”. E ancora, ecco l’altro “successo” del governo: la riforma delle Province. Rimbalzata su tutti i media nazionali. Ma rivelatasi, finora, per usare le parole di Nello Musumeci, “un papocchio”. Per carità, Musumeci è pur sempre il rivale sconfitto. E per di più uno di destra, che più di destra non si può. Peccato però che mentre il deputato catanese affibbiava l’etichetta alla riformina, la Cgil, il sindacato storicamente e tradizionalmente più vicino a un governatore che fu candidato anche con i comunisti, organizzava un sit-in di protesta proprio sulla gestione confusa e contraddittoria del passaggio ai liberi Consorzi. Mentre la Cisl, notoriamente vicina ad ampie fette della “maggioranza crocettiana” parlava di un governo capace solo di “aggiungere figuracce a figuracce”. E il riferimento va alla gestione della vicenda Irpef. “Sì all’addizionale”‘ “no all’addizionale”, “forse sì all’addizionale, ma io non sono d’accordo”, “forse no all’addizionale”. Dopo un viaggio a Roma, seguito dalla nuova denuncia.
La denuncia di una truffa, introdotta da un comunicato stampa in cui si parla delle mani della mafia sui beni della Regione. Peccato che, a parte un cognome sfortunato, il presunto truffatore non avrebbe trascorsi legati a Cosa nostra. Così come non ne aveva un dirigente della Regione, al quale è stata appiccicata una lettera scarlatta in conferenza stampa per colpa di un genero mafioso. Come non ne avrebbero, pare, dei parenti dei Bontade che hanno lavorato per una partecipata regionale. E il gusto della denuncia ha corroborato i rami di una burocrazia, che oggi, dopo avere, per anni, lavorato a stretto contatto con Cuffaro e Lombardo, si sveglia, scoprendo una Regione, regno del malaffare. I pompieri si riscoprono incendiari. Invasi da quello spirito “sbirresco” – per usare le parole di Crocetta – che farebbe pure bene, se spesso non si limitasse a un escandescenza da “fuoco d’artificio” ( ricordate le denunce, le battute, le accuse al commissario Cirignotta sulla storia delle forniture di pannoloni? Alla fine, quella gara è stata regolarmente assegnata).
Ma quello spirito, per fortuna, oggi contagia tutti. Anche gli alti burocrati e i dirigenti generali – magari qualcuno di loro, nel frattempo, è indagato dalle Procure o dalla Corte dei conti, ma in quel caso, viva il garantismo – che hanno per tanto tempo vissuto comodi comodi in quei settori apparsi marci. Solo oggi. Per finire ai tanti commissari, che oggi sembrano fare la corsa a chi denuncia di più. Per garantirsi, magari, una conferma come “presidente” o di “direttore generale” per… meriti legalitari.
Per carità, tutte denunce sacrosante. Se e solo se la magistratura ne confermerà la portata (sarà meglio ricordare che una denuncia non è mai una sentenza). Ben vengano le denunce, al posto dell’omertà. Ma anche queste denunce stanno, a poco a poco, lasciando sempre più da solo il presidente. E non per la semplicistica raffigurazione di una terra intrinsecamente e diffusamente collusa e connivente, ostile alla voglia di abbattere certi fortini dello spreco e del malcostume. Se non della delinquenza. Non per questo motivo, degno di una cartolina seppiata di metà secolo. Perché questa terra è la stessa che ha eletto per la prima volta un governatore di sinistra. E che sette, otto mesi fa, inneggiava al presidente del cambiamento. Salvo accorgersi che, tra una denuncia e l’altra, tra una legge spot contro la parentopoli e qualche finta riforma, tra qualche viaggio a Roma e qualche acquisto buono per il Megafono, il presidente ha dimenticato di parlare di sviluppo. E di lavoro. Spacciando ai siciliani, nella migliore delle ipotesi, la mitologia vetusta della “mafia ovunque” e quella postmoderna della macchina mediterranea e dei pullman volanti.
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05 Agosto 2013, 06:00