20 Marzo 2014, 06:00
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PALERMO – E se ci stesse pensando davvero? Se Rosario Crocetta stesse davvero prendendo in considerazione quella ipotesi: dimissioni e tutti a casa? Il gesto di rottura di un presidente di rottura. Nel bene e nel male, dirà qualcuno. Ma che da mesi sbandiera il mito della rivoluzione. E oggi parla da “patriota”: “O vinco, o muoio sul campo di battaglia”.
Ma qual è il campo di battaglia, oggi? E’ un’area assai ristretta, in fondo. Si tratta del territorio che divide i due Palazzi del potere. Palazzo d’Orleans, da un lato. E Palazzo dei Normanni, dall’altro. Un territorio, quello che distanzia i due edifici-simbolo, che va tenuto sgombro, libero. Altrimenti, ecco i guai. Altrimenti ecco all’orizzonte “il” guaio: che Rosario Crocetta smetta di essere Rosario Crocetta. Pur tenendo la poltrona di Presidente della Regione.
Eccolo, il rischio. Crocetta non vuole smettere di essere Crocetta. Un rischio che mai è stato presente, vivo come in questi giorni. Quelli delle passerelle dei partiti a Palazzo d’Orleans. Quelli degli “incontri bilaterali”, dei “vertici di maggioranza”, dei colloqui, dei compromessi. Mosse che avvicinano i palazzi. Che confondono le facciate.
E il governatore è, ovviamente, consapevole di questo. E lo mette nero su bianco, in una sua nota accorata, ma dalla quale emerge una riflessione, qualche secondo in più di inusuale ponderazione per scegliere le parole nel modo più corretto: “Parlamento e presidente – ha detto Crocetta – vengono eletti direttamente dai cittadini, la Costituzione e le leggi attribuiscono a tali organi funzioni completamente diverse. Il parlamento legifera e controlla, l’esecutivo governa. Quando il potere legislativo e quello esecutivo invadano il campo altrui, si può andare in rotta di collisione e si rischia paralisi”.
Il rischio della paralisi è lì. Nella dottrina “manichea” di Crocetta. Che nei mesi ha distanziato, con i fatti e con le dichiarazioni mediatiche, i due palazzi: in uno di questi lavora il governo della rivoluzione, nell’altro c’è l‘ancien regime. C’è la politica. Quella che ha scelto Crocetta. Ma che a Crocetta non piace poi tanto.
Adesso, però, quella politica insidia il suo castello. Il suo palazzo. Vuole entrare. “I partiti – ha infatti sottolineato il governatore – devono aiutare a risolvere i conflitti e non esasperarli. Con questo spirito ho avviato i rapporti con la maggioranza anche per dare spazio a quelle forze attualmente non rappresentate in giunta. Non tradirò mai il popolo che mi ha eletto, sono un combattente, e i combattenti o vincono o cadono sul campo di battaglia. E mi comporterò esattamente così”.
L’ultima frase, in effetti, ammette varie interpretazioni. Una di queste, è proprio il richiamo al mandato che gli è stato consegnato dai siciliani. Un presidente scelto “dal basso”. Quando nemmeno il suo partito credeva in lui. Un governatore eletto direttamente dai siciliani. E che adesso prova a difendere ciò che resta di questa libertà. Una libertà spesa male. A volte malissimo. Tra strafalcioni e bocciature, tra fallimenti e qualche annuncio rimasto tristemente sulla carta. Fino al punto da rischiare il “fallimento dei fallimenti”, pochi giorni fa, con la faticosissima approvazione della legge sulle Province. Passata grazie ai partiti, come è normale che sia in un parlamento. Ma rimasta a galla a fatica, sempre grazie ai partiti. Come non può essere normale per una maggioranza convinta e coesa al seguito del “capo”.
Una maggioranza che ha subito presentato il conto. Rimpasto. Con tanto di richiesta, in alcuni casi, di “azzeramento”. Che si tradurrebbe nell’ammissione di un fallimento. Il fallimento delle scelte del presidente. E la nuova giunta rischia così di apparire come uno strumento di “tutoraggio” nei confronti di un governatore che, per usare la metafora ironica di Giovanni Pistorio “coltiva la propria solitudine come un aspetto positivo”. Il segretario Udc – partito tra i più critici, in queste ore nei confronti di Crocetta – è andato oltre, invitando con sorriso sornione il presidente a “lasciarsi accompagnare, aiutare, sostenere”. Come se il presidente, oggi, fosse zoppo. Accerchiato.
Un’immagine chiarissima, l’altra sera. Mentre in Aula arriva il ddl pagamenti al centro di lunghe e accese polemiche, il governatore è in una sala di Palazzo d’Orleans. Una sala colma di politici. Nel frattempo, a Sala d’Ercole, il governo affondava, portando con sé uno dei tecnici di Crocetta, Luca Bianchi. In quel momento, la “politica” aveva preso il palazzo del presidente. Troppo scaltro per non accorgersene: “Il presidente della Regione – ha detto – viene eletto con un mandato popolare e certamente non utilizza le dimissioni come strumento di trattativa”, ha detto. Ribadendo il concetto di qualche ora prima: “I partiti vogliono un nuovo governo? Allora servirà un nuovo presidente…”. Ci sta pensando, alle dimissioni. Un passo che forse Crocetta non farà mai. Sapendo però, a quel punto, di correre un rischio persino più grande. Quello di ritrovarsi, dopo il rimpasto, diverso da se stesso. Quello di svegliarsi, cioè, col Palazzo invaso dalla politica. Quello di accorgersi, insomma, di non essere più Rosario Crocetta.
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20 Marzo 2014, 06:00