08 Ottobre 2010, 15:51
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Protagonista in prima linea della lotta alla mafia in quegli anni, visto il suo ruolo nel pool antimafia, Giuseppe Di Lello ha condiviso insieme a Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Leonardo Guarnotta, un periodo storico e tremendo. Di vittorie e sconfitte nella lotta alla mafia. Di tragedie, che hanno colpito, da Chinnici a Borsellino, molti suoi colleghi. E proprio sul ruolo dei giudici oggi, in occasione del Festival della legalità in corso a Villa Filippina, Di Lello ha espresso il suo parere con tono flemmatico, ma usando concetti molto chiari, durante un dibattito moderato dal giornalista del Corriere della sera Felice Cavallaro e al quale era presente anche Rita Borsellino.
“A volte, purtroppo, anche nella Magistratura assistiamo a lotte per accaparrarsi i ruoli dirigenziali. Pochi posti, per tanti giudici che concorrono. E troppo spesso – ha aggiunto – si tende a cercare delle ‘raccomandazioni politiche’ per raggiungere questi obiettivi”. Una fotografia assai critica nei confronti dell’attuale Csm, e in particolare sulla divisione dei giudici in ‘correnti’: “Correnti che vanno bene se sono luoghi di dibattito, ma che diventano assai dannose se vengono interpretate come i mezzi per la spartizione dei posti all’interno della magistratura”. E ancora: “Maggiore attenzione – ha detto Di Lello – andrebbe fatta sulla tempestività delle nomine. Così la nostra categoria, e mi riferisco in particolare alla rappresentanza del Csm, perde di credibilità e non fa altro che scimmiottare la politica”. Nonostante tutto questo, Di Lello ha notato un “miglioramento” in alcuni aspetti dell’amministrazione della giustizia e anche nel rapporto con la pubblica opinione: “Negli anni ’70, è bene dirlo, molti procuratori, sebbene non fossero certamente mafiosi, portavano con sè i valori di Cosa nostra. E in molti casi, lo stesso si può dire dell’opinione pubblica…”. E il riferimento va ai giornali di venti anni fa: “Ricordo benissimo cosa scriveva Il Giornale di Montanelli o il Giornale di Sicilia. Dicevano che noi giudici dovevamo essere rinchiusi tutti in uno stesso palazzo e i nostri figli dovevano frequentare tutti la stessa classe per evitare che gli attentati potessero colpire altre persone oltre a noi. Ricordo anche il fastidio espresso per le sirene, i posti di blocco. Come se noi giudici dessimo più fastidio della mafia. Venti anni fa, dovevamo guardarci non solo dalla mafia, ma anche dalle istituzioni”. Oggi, però, qualcosa è cambiato. Ma molto c’è ancora da fare: “La chiave è la conoscenza, la possibilità che l’opinione pubblica sappia cosa succede. E di certo – ha concluso – leggi liberticide come quella sulle intercettazioni rischiano di farci torare davvero venti anni indietro”.
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08 Ottobre 2010, 15:51