08 Dicembre 2010, 08:06
3 min di lettura
Qualche tempo fa sulle pagine de “Il Foglio” Camillo Langone, con il suo solito stile asciutto e diretto, scrisse: “Solidarietà è parola che mi causa il voltastomaco, profuma di tasse, ruberie e bugie, mi piacerebbe percepire la parola ‘fraternità’ e il sentimento di essere fratelli, figli dello stesso padre”. Al di là del tono piuttosto forte Langone esprime un concetto condivisibile perché la parola solidarietà è una parola abusata, e questo abuso rivela una errata o poco profonda comprensione della parola. Il termine solidarietà è abusato dai politici che hanno sempre da solidarizzare con qualcosa o qualcuno, ma è abusato anche dall’uomo della strada che nel suo linguaggio comune ha ascritto questa parola al campo semantico della povertà. Non è un caso che quando si parla di solidarietà il pensiero corre a iniziative benefiche nei confronti di poveri e diseredati e vittime di ogni tipo di disgrazie. Per molti infatti solidarietà è comprare una pianta, un panettone o un uovo di pasqua per aiutare orfani, disabili, malati, terremotati, alluvionati e chi più ne ha più ne metta. Nulla di male in queste iniziative benefiche però, fatte salve le ottime intenzioni dei promotori, rischiano di risultare un po’ ipocrite. Pensiamo veramente di essere solidali dando un obolo occasionalmente, intenerendoci per il disgraziato di turno? Crediamo di essere solidali quando piagnucolanti davanti ad un presepe vivente facciamo la classica “buona azione”? No, non lo siamo per niente al massimo siamo solo un po’ perbenisti. La solidarietà è qualcosa di più grande, è qualcosa che si vive ogni disgraziato giorno che ci capita su questa terra e non soltanto quando si è tutti più buoni; è una realtà che dovrebbe farci volgere verso chi soffre nella nostra città, nel nostro quartiere, nel nostro condominio e non soltanto verso i bambini di Haiti e i malati di un ospedale rumeno che sono a “distanza di sicurezza” dalle nostre esistenze.
La solidarietà, per dirla con Langone, dovrebbe tornare ad essere fraternità, qualcosa di più tangibile e meno ipocrita magari ritornando al senso etimologico di questa parola. La prima volta che ho pensato alla radice di questa parola è stato grazie al mio professore di fisica del liceo, un uomo buono che aveva studiato per diventare prete che parlava dalla cattedra come da un pulpito e che parlandoci delle leggi della fisica provava anche ad insegnarci la legge dell’amore. Ricordo che una volta parlandoci degli stati di aggregazione della materia ci disse che i rapporti tra gli uomini troppo spesso sono liquidi o ancora peggio gassosi perché c’è poca coesione tra loro, mentre l’ideale sarebbe lo stato solido quando le particelle costituenti la materia sono strettamente unite l’una all’altra. Scoprì quel giorno che la parola solidarietà viene dal latino solidus cioè compatto, intero, pieno proprio come quel corpo le cui particelle sono straordinariamente coese in un naturale abbraccio fraterno. Il mio voto in fisica è stato sempre appena sufficiente ma in compenso ho imparato che in tempi di modernità liquida e di rapporti aeriformi gli uomini devono riscoprire la bellezza della solidità, di quella compattezza fraterna che è pienezza dell’amore.
Pubblicato il
08 Dicembre 2010, 08:06