Se la storia non insegna - Live Sicilia

Se la storia non insegna

di DANIELA VACCARO* Lo spunto me lo ha dato un commento lasciato da un lettore la scorsa settimana. “Preparazione sempre più scadente e ragazzi sempre più asini.” Immagino che il signor Rizzuto si riferisse alla scarsa preparazione degli insegnanti, dato che di insegnanti si parlava.
Buoni e cattivi
di
4 min di lettura

di DANIELA VACCARO* Lo spunto me lo ha dato un commento lasciato da un lettore la scorsa settimana.
“Preparazione sempre più scadente e ragazzi sempre più asini.” Immagino che il signor Rizzuto si riferisse alla scarsa preparazione degli insegnanti, dato che di insegnanti si parlava.
Bene.  Può essere. Partiamo dal presupposto che gli insegnanti di oggi siano meno preparati di quelli di 20-30 anni fa. Non  mi metto neanche a discutere sul fatto che i miei insegnanti – perlopiù preparati da un punto di vista disciplinare – non avessero la minima nozione di pedagogia e/o psicologia, e ignorassero cosa fossero le metodologie didattiche. No. Ho detto no.
Oggi voglio discutere – con il signor Lorenzo e non solo – la seconda parte della sua affermazione  (“ragazzi  sempre più asini”) e, partendo dal presupposto che la prima parte della sua affermazione sia vera, anzi verissima, dimostrare che non è per questo che i ragazzi sono sempre più asini. Non solo, perlomeno.
Parafrasando una canzone di Sting che diceva History will teach us nothing, sposto l’asse temporale al passato e parto da un lapidario: La storia non ci ha insegnato niente. E per storia non intendo solo quella con la s maiuscola.
Il futuro di una nazione sta nella sua memoria. La memoria collettiva, che è fatta della Storia e di tante storie. Quando ero piccola – e ho solo 38 anni compiuti da pochi giorni – mia madre e mia nonna, mi raccontavano della II Guerra Mondiale, ma c’era anche mio fratello che mi faceva vedere i film di Totò e mi parlava dello sceneggiato de I Promessi Sposi, fin quando non lo replicavano e non mi era venuta la curiosità di vederlo io stessa, per appropriarmi di quel ricordo che era suo. C’era Calimero e “Ava come lava”, c’era il presidente Pertini che era un partigiano “è vero…”, c’era il Santiago Bernabeu, ma anche Italia-Germania 4-3, pure se non ero nata. Con i figli si parlava, si condivideva il ricordo di quando non esisteva il sapone da bucato e i panni si lavavano con la cenere e dei sabato mattina in cui si era costretti a vestirsi da “Piccolo Balilla”.
Provate a parlare con un adolescente di oggi e a chiedergli della tv degli anni ’70 e ’80 con cui sono cresciuti i suoi genitori, che hanno la mia età. Nove volte su dieci, indipendentemente dalla classe sociale a cui il ragazzino appartiene, non saprà nulla di Fonzie o di Raimondo Vianello. Figurarsi della guerra nel Vietnam, o di Aldo Moro. Prendetelo per un paradosso, per una provocazione, ma io vedo in questa perdita di memoria collettiva uno dei motivi principali per cui i ragazzini di oggi sono sempre più “asini”.
Io – e migliaia, milioni come me – non ho avuto bisogno di imparare sui libri chi fossero  Ulisse, Renzo, Muzio Scevola. Ho dovuto piuttosto scavare, ricostruire, unire in un unico ipertesto dentro la mia testa tante storie che mano a mano avevano lambito o toccato più profondamente la mia esperienza.
Non ho dovuto imparare che il legno è isolante e il ferro è conduttore, perché qualcuno vicino a me me lo aveva già insegnato.
Ad ogni classe sociale, ad ogni milieu era data una parte – diversa, ma ugualmente ricca – di conoscenza: la cultura contadina, operaia, gli intellettuali, tutti contribuivano alla crescita culturale di un paese che era bello perché era vario.
Ora, con questi ragazzi, gli adulti non parlano, neanche per raccontargli delle scemenze che vedevano in televisione quando avevano la loro età. Figurarsi se si mettono a parlare della morte di Falcone o Borsellino, della caduta del Muro di Berlino o della lettura dei Promessi Sposi.
Viviamo in un paese in cui si ride di una sciocca tettona che dice in televisione che l’autore del suddetto romanzo è Umberto Manzoni. Un tempo chiunque se ne sarebbe vergognato.
La responsabilità degli insegnanti è quella – condivisa – di tutti gli adulti che hanno accettato questa deriva culturale e che continuano a fare quei pochi figli che fanno senza avere il tempo e la gana, direbbe Montalbano, di occuparsene. Occuparsene non significa solo lavarli, vestirli e portarli a scuola: conditiones sine qua non…eppure vi potrei raccontare di tanti casi…ma oggi stiamo parlando di altro.
Occuparsi di un figlio significa mostrargli una strada e poi lasciarlo libero di percorrerla. Questo fa un maestro. E maestri dovremmo imparare a essere di nuovo tutti: insegnanti, genitori, adulti.
* Insegnante


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI