28 Marzo 2011, 09:22
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Dell’inviato Alfredo Pecoraro (ANSA) All’uscita dal ristorante la Cambusa, in pieno centro a Lampedusa, Mohamed, Habib e Samir sono seduti sui cofani della auto parcheggiate. Ascoltano la musica che arriva da un pub, dove una comitiva di giovani lampedusani balla al ritmo di sound latinoamericano. “A Tunisi la polizia di Ben Alì l’avrebbe fatto chiudere subito”, dice Mohamed, 26 anni, cappellino in testa e il sogno di trovare un lavoro a Milano. E’ notte. Ma le strade adiacenti a via Roma, il centro di Lampedusa somiglia a una kasba. In porto è da poco arrivato un barcone con una cinquantina di migranti, l’ennesimo, mentre una ventina di extracomunitari abbozza uno sciopero della fame mostrando cartelli con scritte in francese e arabo. Il cielo è tempestato di stelle. Ma l’isola non è più quella d’un tempo. “Lampedusa ok, polizia ok, people ok”, annuisce Yassine, 26 anni, arrivato due giorni fa. Ad Hammamet ha lasciato la sua famiglia, è alla ricerca di un lavoro in Europa. “Francia, Belgique oppure Sweden”, sorride in un francese stentato mentre i suoi amici confermano. Sono tutti giovani, il più ‘vecchio’ ha 26 anni. “In Tunisia there isn’t job”, dicono. Hanno voglia di libertà. Il sorriso stampato. “Mangiamo poco, ma non importa; l’Italia is beautiful”, aggiungono. Habib è a Lampedusa da quattro giorni, Samir da cinque. Hanno ancora la forza di sognare, sebbene dormano all’aperto, non si lavino e vaghino per tutto il giorno in una perenne attesa. “Quando ce ne andiamo”, chiedono al cronista. In tasca hanno qualche spicciolo. “Andiamo al pub, ti paghiamo un caffé”, propone Yassine, 21 anni. Hanno voglia di parlare, di capire cosa succederà. E aspettano. “Qui respiriamo libertà, in Tunisia siamo stati oppressi; quando Ben Alì è andato via le cose sono cambiate, abbiamo Internet, Facebook ma non c’é il lavoro, così tanti giovani come noi partono in cerca di una occupazione”, spiega Fouad, 22 anni, partito da Zarzis.
Nella notte di Lampedusa di gruppi di tunisini che girano senza meta se ne incontrano a centinaia. Vagano con sacchetti in mano, pieni di cibo e bottiglie d’acqua. Qualcuno si avventura persino nell’entroterra, dove l’unico bagliore arriva dalla tempesta di stelle. “Guarda, questo giubbotto me lo ha dato una donna di Lampedusa, qui sono tutti gentili”, dice felice Karim, 19 anni, partito da Monastir. I ristoranti sono pieni di giornalisti. Negli hotel c’é il tutto esaurito. Trovare un posto è difficile, è tutto occupato da uomini delle forze dell’ordine, autorità, operatori umanitari e inviati di giornali e televisioni. “Ma prima o poi i riflettori caleranno, a quel punto che ne sarà di noi?”, s’interroga al bancone di un bar una donna, mentre la figlia le chiede perché la gente ai tavoli non va via così potrà andare a letto a dormire. “Domani vado a scuola, no mamma?”, domanda sbadigliando. Perché Lampedusa, da quaranta giorni, è un’isola che non c’é. Il circo mediatico e lo schieramento di polizia e carabinieri, personale umanitario e operatori di varia natura offre un’immagine dell’isola irreale. Le centinaia di tunisini che vagano nella notte sembrano tanti fantasmi, senza meta, ma con tanti sogni. Nei volti dei cronisti c’é la stanchezza per i tanti giorni trascorsi a scrivere di sbarchi, a fare la conta degli arrivi, a riprendere con le telecamere quei disgraziati sfiniti dal viaggio in mare e che hanno la forza di sorridere e di fare il segno della vittoria quando arrivano nella banchina del porto.
Un clima surreale, mentre la rappresentazione di quello che accade scivola su fiumi di proposte e parole di politici che poco hanno a che fare con la realtà che Lampedusa vive da quaranta giorni. “Signore, che ne pensa di Torino? Possiamo andare lì per trovare lavoro oppure è meglio la Germania, magari l’Olanda, che ne dice signore?”. Anche questa notte è appena trascorsa. Oggi arriveranno altri barconi. Altri politici. E Lampedusa non è più quella che era. Ma solo in pochi per ora se ne sono accorti.
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28 Marzo 2011, 09:22