Se questo è un partito

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07 Luglio 2015, 06:00

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PALERMO – “Se il Pd mi chiedesse di dimettermi lo farò”. In un sabato di surreale dibattito, Rosario Crocetta alla direzione del Pd l’assist lo aveva pure offerto. Ma nessuno per il momento s’è sentito di spingere la palla in rete. Lo psicodramma collettivo raccontato in diretta da Livesicilia ha offerto un’immagine a brandelli del Partito democratico, che resta malgrado tutto l’unico vero partito in Sicilia. Un partito che discute, certo, come da tradizione. Ma che fa fatica a decidere, come da tradizione. Anche di fronte alla conclamata evidenza del fallimento.

Che la legislatura arrivi al termine naturale sembra ormai impossibile ai più. Il dilemma al momento sembra essere quello fra il voto a ottobre o la prossima primavera, insieme alle amministrative in grandi città italiane.

E così, l’ultima puntata del minuetto democrat è il braccio di ferro, vero o di facciata che sia, tra falchi e colombe, cioè tra quanti vogliono tornare al voto subito – magari raccontando agli elettori la storiella che è tutta colpa di Crocetta e loro in questi anni erano impegnati a fare altro – e quanti invece vogliono aspettare ancora, e ancora, e ancora, ripetendo all’infinito il ritornello ormai logoro, sempre lo stesso: quello del salto di qualità, del rilancio dell’azione di governo, del cambio di passo, del patto per le riforme, e chi più ne ha più ne metta, tutte perifrasi utili per andare avanti purché nessuno tocchi la poltrona.

Alla seconda categoria, quella della pazienza a oltranza, si sono iscritti due esponenti di peso del partito, Giuseppe Lupo, che da poco è stato eletto vicepresidente dell’Ars, e il capogruppo Baldo Gucciardi. Che poi sono tra i pochi esponenti di punta dell’area di provenienza cattolica del partito. E da cattolici, Bruno e Gucciardi hanno dato di prova di quella evangelica fede capace di spostare le montagne, in nome della quale i due ancora aspettano e sperano, almeno a parole, la fantomatica “svolta”. Quella che da due anni e mezzo si attende come Godot, senza vederne l’ombra. Quella a cui non crede più nessuno, pensavamo. Tranne forse Lupo e Gucciardi. “Penso che ci siano le condizioni per una fase nuova di rilancio del programma per lo sviluppo e le riforme”, ha detto con fede granitica Lupo. Dei propositi di “rilancio” di questa legislatura s’è ormai perso il conto. Eppure Gucciardi rimane “convinto che, se dimostreremo che deputati e governo sono in grado di risolvere i problemi è giusto che si vada avanti”.

E così le colombe bianche diventano la sponda del senatore Beppe Lumia, altro predicatore instancabile della “strada delle riforme”, contro le richieste di voto anticipato dei falchi. E tra uccellacci e uccellini, il piano è quello di tirare a campare ancora un po’, prima dello sfratto a cui una buona parte del Pd sembra ormai abbastanza rassegnata. Un’idea, quella di resistere un altro annetto che non dispiacerebbe anche ad altri deputati.

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Ma accanto ai “miglioristi” di nuovo conio, ecco quelli che invece è meglio finirla qua. I renziani di Davide Faraone pensavano di apparecchiare il voto per l’anno prossimo ma adesso spingono per tornare alle urne già quest’autunno. La loro scommessa è che offrendo all’elettorato lo scalpo politico di Crocetta, la memoria collettiva evapori. Un azzardo che spiegherebbe l’arrembaggio del sottosegretario. “Non si può pensare di non andare a votare perché si ha paura”, dice Faraone. Quello stesso Faraone che con un blitz romano un pomeriggio spaccò il Pd battezzando lo sgangherato Crocetta-bis, che straripava di renziani di rito faraoniano a tutti i livelli. La scommessa è ardita: non sarà facile convincere in campagna elettorale i siciliani che Crocetta e il Pd sono due cose diverse, considerato che è stato il Pd a candidare e sostenere fin qui il governatore, e a spartire con lui e gli alleati gli strapuntini di potere. Quel Pd che in questi due anni e mezzo si è spesso mosso in ordine sparso nel rapportarsi col governo, debole nelle sue spaccature e nei balletti delle sue correnti che si alternavano, a seconda della convenienza del momento, nel recitare la parte del sodale o dell’avversario interno del governatore.

Eppure l’idea dei “falchi” è proprio questa. Sganciarsi anzi tempo, anche traumaticamente dal presidente della Regione, senza lasciare troppo tempo al centrodestra e alla sinistra radicale per organizzarsi e ai grillini per radicarsi ancora di più sul territorio. E smettere di rosolare a fuoco lento. Spinge per il voto anche Mirello Crisafulli e sembra che pure Antonello Cracolici ormai abbia varcato il rubicone in questo senso. “Andare al voto, ovviamente, non è una vittoria per noi. Ma può essere lo strumento per dimostrare di essere ancora una classe dirigente. L’accanimento può essere pericoloso”, ha detto l’ex capogruppo. Di staccare la spina parla da tempo Fabrizio Ferrandelli, che oggi però ha annullato la conferenza stampa che doveva lanciare la sua campagna per mandare a casa Crocetta. Un rinvio deciso in vista di una imminente trasferta romana di Ferrandelli.

In mezzo a falchi e colombe c’è il presidente della Regione. Un conto è andare a votare dopo dimissioni del governatore, un altro sarebbe sfiduciarlo. Sul quadro di totale incertezza aleggia lo spettro dell’inchiesta sul medico del presidente, Matteo Tutino. Inchiesta di cui ancora si sa molto poco. Se non che è stata la goccia che fatto traboccare il vaso della resistenza di Lucia Borsellino (che con la magistratura ha collaborato), spingendola a mollare amareggiata il governatore. “Sa qualcosa che io non so?”, si chiedeva sabato Crocetta.

In queste acque agitatissime naviga a vista la barca malconcia del Pd. Di certo c’è solo che avuta la prima, storica chance di governare la Sicilia, i democratici hanno fallito. “L’errore è stato aver perso due anni”, ammette in un’intervista, in cui però si sforza di convincere che la crisi di Crocetta “non è colpa del Pd”, il segretario Fausto Raciti. Che nella tragica direzione di sabato è apparso avvilito di fronte a tanto caos, un po’ come Benigni in Johnny Stecchino quando nella sala da barba cercava di insegnare agli uomini di Cozzamara la canzoncina coi versi degli animali. Anche se nella fattispecie era fin troppo chiaro chi, nei piani dei democrat siciliani, dovesse fare la parte del tacchino.

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07 Luglio 2015, 06:00

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