06 Ottobre 2013, 07:50
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Ci sono alcune immagini che mi resteranno dentro dell’ennesima tragedia che s’è consumata nel Mare Nostrum. Le salme disposte in fila sulla banchina, il pianto silenzioso della soccorritrice che le ha appena scaricate sul molo, la commozione del lupo di mare con il viso scolpito dalla salsedine che pensava, sbagliando, di averle viste tutte nella vita. Ma la cosa che più mi ha sconvolto è il pensare che quei corpi umani stesi dentro quei sacchi di plastica o adagiati sul fondo del mare non hanno un nome. Quegli esseri “creati da Dio a sua immagine e somiglianza” sembrano bovini in fila nel macello o tonni tirati su dal mare in una ricorrente mattanza. Non uomini dotati di dignità, sogni, speranze e angosce; solo anonimi migranti. Se solo riflettessimo fermandoci in qualche punto intermedio tra il sognante buonismo dell’accoglienza indistinta in un Paese alla canna del gas e l’osceno egoismo xenofobo di coloro che invocano pattugliamenti e respingimenti che non ci appartengono per indole e per cultura, forse scopriremmo che quei migranti un nome ce l’hanno. Così come una casa. E genitori, mariti, mogli, fratelli. Amori che un giorno rivedranno. Forse.
Ne ho conosciuti alcuni, di questi uomini senza nome. Perché quando arrivano nei nostri ospedali spesso faticano a capire che tu sei lì per aiutarli e mentono anche su quello. Che le tue domande non servono per rispedirli a domicilio come un pacco; ma per sapere e per capirli. Come pazienti e come uomini. Ne conquisti la fiducia a poco a poco. Basta un sorriso, o un piccolo gesto. Ultimamente, un hamburger con patatine dentro una scatoletta di cartone che fa tanto “benvenuti in paradiso”. E così cominciano a raccontarti dei lunghi viaggi in camion e delle guardie che pretendono il pizzo in denaro o in natura, di frontiere libiche spalancate e di centri di raccolta in cui la violenza sulle donne è regola. Fino all’arrivo in porto dove gli scafisti attendono il momento giusto per completare il carico. Uno di essi era eritreo, aveva un nome impronunciabile che abbreviammo in Tesfa. Arrivò con una tubercolosi avanzata. Lo tenni quasi un mese, medicandolo tutti i giorni attraverso un tubo che gli misi nel torace. Gli infermieri gli regalarono un paio di ciabatte, qualche pigiama pulito, dei biscotti. E lui un giorno, al termine della medicazione, tirò fuori il portafoglio e ci mostrò la foto dei suoi bambini. Andando via, si fermò un attimo accanto al letto, mi guardò e mi baciò le mani. Non so dove sia finito Tesfa, ma ho ancora negli occhi le sue mani scarne che tremano mostrando quella foto o prendendo le mie. Mani umane che si stringono. Perché, se qualcuno a Pontida o a Bruxelles non l’avesse capito, questi sono uomini come noi. Si ammalano, pregano, soffrono, ridono e tengono le foto dei bimbi nel portafoglio come noi. Essi amano e sono amati come noi.
Girando su internet ho trovato la traduzione di una canzone scritta da un cantante eritreo, anche lui un Tesfa, in ricordo della sua donna annegata nel Mare Nostrum. Solo una delle oltre 19.000 vittime accertate di questa strage senza fine. Ecco alcuni versi:
Mare, dentro di te sta il mio amore.
Hai preso la sua anima e il suo cuore.
Mare, riportala a riva, fammi parlare di nuovo con lei.
Cercala ovunque, trovala, fallo per me.
Mare riportami l’amore della mia anima
Insieme ai suoi compagni pellegrini di questo destino.
Creature del mare, siete voi gli unici testimoni di questa storia
E allora ditemi: quali sono state le sue ultime parole prima di partire
Mare! Non sei tu il mare? E allora rispondimi!
Che il mare non risponda è naturale. Che tacciano i burocrati dello spread è innaturale e disumano.
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06 Ottobre 2013, 07:50