La famiglia "sfamiliata" - Live Sicilia

La famiglia “sfamiliata”

Noi è un soggetto sempre più difficile da considerare. Viviamo nel regno dell'io e dei suoi derivati talvolta tossici. Ecco perché aumentano anche in Sicilia separazioni e divorzi. E si impone la famiglia "sfamiliata".

Secondo i dati Istat del 2011 in Italia si assiste ad un boom delle separazioni e dei divorzi, ad un calo dei matrimoni, principalmente religiosi, e ad un aumento notevole delle convivenze prematrimonio. Tale fenomeno, sino a una decina di anni fa, riguardava prevalentemente il Nord Italia; negli ultimi anni si è diffuso prepotentemente anche nel Mezzogiorno e nelle Isole, dove il peso delle convivenze prematrimoniali è aumentato vertiginosamente (58,1%). Per quanto riguarda le separazioni, nel Sud Italia le misure sono più che raddoppiate: per esempio, dal 1995 al 2012 si è passati dal 70,1 al 216,5 per 1.000 matrimoni in Campania, e da 78 a 228,9 in Sicilia. Anche la Sicilia, terra fortemente conservatrice e tradizionalista, si è adattata al trend nazionale, ed il capoluogo siciliano si è addirittura aggiudicato un terzo posto sul podio dei tribunali per richieste di separazioni e divorzi, dopo i tribunali di Milano e Roma.

Palermo infatti si fa notare per la sua media di separazioni, pari al 62% , e divorzi pari al 60%. Inoltre, il Tribunale di Palermo prima sezione, si trova in forte congestione, tale che dal deposito del ricorso per separazione o divorzio, alla fissazione dell’udienza presidenziale passano dai 7 ai 9 mesi. Sovraffollamento che ha portato il Presidente del Tribunale, unico a potere esperire tale udienza, a delegare ad alcuni Giudici anche questa funzione “presidenziale”, per poter far fronte al numero elevatissimo di udienze, e smaltire il carico enorme di ricorsi. In linea generale, la famiglia è di per sé un’istituzione estremamente importante in Italia, forte dell’ideologia cristiano-cattolica che preserva il nucleo matrimoniale come Sacramento di Fede.

Peter Nichols, per molti anni corrispondente da Roma del «Times», descrisse la famiglia italiana come: “il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega.” Se, dunque, in Italia la famiglia è la principale artefice della struttura sociale, nel Sud del paese essa ne diviene la struttura sociale stessa. Parlare di “famiglie sfamiliate” in Sicilia sembra quindi un ossimoro, se riflettiamo su quanto la Famiglia – con la F maiuscola- sia parte integrante e cardine della nostra cultura e della nostra storia. Per poter capire cosa succede oggi, bisogna forse partire da ciò che è successo ieri.

Leggendo fra le righe della storia siciliana, il sistema familistico da sempre si è caratterizzato per una forte auto-centratura, offrendo ai suoi membri un “nido” sicuro dove poter rifugiarsi, quando il mondo esterno si dimostra poco sicuro ed affidabile. Secondo lo psicologo Innocenzo Fiore, uno dei temi di fondo dell’antropologia siciliana è un profondo senso di insicurezza, associato ad un forte bisogno di accudimento e protezione. Tale insicurezza parrebbe essere il cuore dell’identità siciliana, per cui secondo tale tesi, non stupisce che proprio nella Famiglia, si ricerca una difesa dall’esterno, come il bambino cerca rifugio tra le braccia della madre, attraverso un rassicurante mantenimento dell’omeostasi in puro stile gattopardesco, in opposizione a qualsiasi forza centrifuga, portatrice d’imprevedibili cambiamenti e pericolose aperture verso l’esterno.

La famiglia siciliana, dunque, ha generato nel corso della sua storia forti forze centripete, tali da attrarre i suoi membri all’interno di quello che il sociologo Banfield ha chiamato “familismo amorale”, ovvero l’ipotesi secondo la quale gli individui sembrerebbero agire come se seguissero una regola: “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”. Familismo, dunque, perché l’individuo perseguirebbe solo l’interesse della propria famiglia nucleare, e mai quello della comunità che richiede cooperazione tra non consanguinei. Amorale perché seguendo la regola si applicano le categorie di bene e di male solo tra familiari, e non verso gli altri individui della comunità.

L’amoralità non sarebbe quindi relativa ai comportamenti interni alla famiglia, ma all’assenza di spirito comunitario, all’assenza di relazioni sociali morali tra famiglia e individui esterni alla famiglia stessa: il Noi- familiare, si sostituisce quindi al Noi-sociale, gettando le basi di una vera e propria comunità familistica, sintetizzata perfettamente dal proverbio “La famigghia si ricanusci a la chiuruta di la porta”.

Descritta in questi termini la Famiglia fa quasi un po’ paura! Ma tralasciando le crude analisi socio-antropologiche, la Famiglia siciliana ha anche tante virtù. Quasi sino a divenire un cliché, il concetto di famiglia in Sicilia si associa ad un sentimento di profondo legame tra i suoi membri, che è in grado di andare oltre le spinte egoistiche ed individualistiche, verso cui la nostra società sempre più ci spinge. Essa s’impone nello scenario europeo, per non dire mondiale, come custode di tradizioni e di relazioni, garante di un senso di connessione con la propria storia familiare, tanto forte da allontanare il fantasma della solitudine, facendoti sentire parte di un qualcosa che ti trascende e che allo stesso tempo ti attraversa e ti definisce.

Riprendendo i dati di cui sopra sull’aumento delle separazioni e divorzi, è lecito chiedersi, dunque, che cosa stia accadendo alle Famiglie siciliane.

Posto che la Famiglia in senso astratto non abbia perso quel senso di “custode di storie generazionali”, ciò che sta cambiando è, probabilmente, il fatto che viene meno la dimensione del “Noi”, a fronte di un “Io” sempre più ingombrante. La coppia finisce di essere tale nel senso di diade interconessa, e diviene piuttosto “con-vivenza” di due persone, aldilà del fatto che siano sposate o meno. Con- vivenza come idea di due individui che co-vivono, ovvero vivono insieme senza alcun passaggio dell’uno all’altro, mantenendo così ognuno un proprio nucleo di quello che potremmo chiamare, estremizzandolo, “invidualismo amorale”. Individualismo poiché l’individuo perseguirebbe in ogni caso il proprio interesse, a fronte della disposizione al compromesso con l’altro; Amorale perché si applicano le categorie di bene e di male solo a se stesso ed al proprio livello di soddisfazione e appagamento.

In una società dove l’imperativo categorico, volenti o nolenti, è il “contratto a breve termine”, impegnare tutta la nostra vita su un unico sceneggiato predefinito, sembra negare la possibilità di altre vite, di altre storie ed opportunità d’essere più attuali e chissà, magari più promettenti.

È vero che “l’amore– come ricorda Z. Bauman- è un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e imperscrutabile”, però sembrerebbe che siamo tutti più sensibili agli innamoramenti che non all’amore, poiché il primo è fugace, intenso, appagante e non vincolante; il secondo chiede tempo, impegno, ed anche sacrificio.

Il vero problema è che la gente si sacrifica così tanto nell’ambito socio-lavorativo, che non vuole più accettare il concetto di sacrificio nella sfera privata, confondendo il sacrificio con un concetto globale di privazione e rimpianto. L’impegno “finché morte non ci separi”, nella morte e nella malattia, ha più le sembianze di una trappola da evitare, poiché rende, se lo si guarda con questi occhi, inevitabilmente dipendente dal partner, condizione della quale non si ha mai la sicurezza che ne valga davvero la pena. E questa insicurezza, non solo nelle giovani coppie, ma anche quando inizia il “tempo dei bilanci”, può rendere difficile il processo di comprensione del significato psicologico della propria esistenza, portando a confondere il senso di appagamento di quanto costruito con la rassegnazione, e le modificazioni fisiologiche e biologiche come dimostrazione che ormai il tempo fugge e “bisogna giocarsi le ultime carte, chi si è visto, si è visto!”

Così, volendo ironizzare sul dolore che la fine di una rapporto comporta, possiamo immaginarci dei Super Uomini o Super Donne, più o meno cresciutelli/e, che, come adolescenti alla ricerca di se stessi, trovano il modo di rimettersi in gioco: “ mi separo e mi do alla bella vita!”. Alcuni uomini diventano dei guru del jogging, sfidando qualsiasi condizione metereologica e qualsiasi tutino aderente in gore-tex, altri si sfogano nel ciclismo sfrenato e off-limits, altri ancora, più classici e sofisticati, si danno al fascino del pilota di moto o auto da pista, ed infine, i più ostinati optano per le fughe d’amore, in puro stile “ Scusa ma ti chiamo amore” di Moccia. Alcune donne si sistemano “un po’ di qui, un po’ di lì”, e si calano nei panni di femme fatale, cercando di recuperare il tempo perduto.

Ruoli diversi, ma tutti alla fine in corsa dietro qualcosa o qualcuno che come un baluardo simboleggia la magia illusiva della “vita altra”, prima che i riflettori illuminino il set, ponendo fine allo show. Rapporti fragili quindi, ispirati troppo spesso al culto della gratificazione istantanea ed alla perdita della capacità di attendere che le cose- nella fattispecie i rapporti coniugali- migliorino.

La forza della cultura familiare siciliana, allora, può e deve essere recuperata e mantenuta viva, poiché – familismo amorale a parte- è un valore aggiunto rispetto a tanti altri paesi, in cui questa dimensione si va sempre più parcellizzando in micro-unità familiari. Profeticamente il personaggio di Don Vito Corleone diceva nel famigerato film Il Padrino “Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia, non sarà mai un vero uomo.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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