Uccise il figlio di un industriale | Libero senza un giorno di carcere

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15 Luglio 2013, 06:00

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CATANIA – Ormai è un uomo libero, nonostante dei trent’anni di carcere che gli erano stati inflitti non ne abbia scontato neppure un giorno. La sentenza per avere rapito e ucciso il figlio di un industriale catanese non gli è stata notificata. Mai. Giovanni Di Pietro, classe ’56, ha atteso che il tempo passasse a Buenos Aires, città dove si è trasferito a vivere prima ancora che il processo finisse. È stata la distanza a “salvarlo”, un’estradizione negata, oppure potrebbe essersi trattato di una clamorosa svista? Il suo legale, l’avvocato Tommaso De Lisi del foro di Palermo, da noi contattato si limita a confermare che “la pena è stata estinta per decorso del termine di trent’anni dalla data di irrevocabilità della sentenza. È tutto legittimo”. Null’altro aggiunge. O meglio, non vuole aggiungere per riservatezza.

Per saperne di più bisogna scavare nel passato. Si parte, però, da un dato di fatto. Ed è l’ordinanza di “risoluzione di incidente di esecuzione” emessa dalla prima sezione della Corte d’appello di Catania l’8 luglio scorso. Il collegio non ha potuto fare altro che prendere atto della situazione e dichiarare “estinta la pena di reclusione per avvenuta prescrizione”. Procediamo per ordine, spulciando le pagine ingiallite delle vecchie cronache giudiziarie dell’epoca. Il 19 maggio 1978 venne rapito Franz Trovato, ventiseienne studente figlio di un facoltoso industriale di Acireale, titolare di alcuni stabilimenti che trasformano gli agrumi in essenze. Franz si era allontanato da casa per andare in un villa di famiglia in contrada Lavinaio. Qui i carabinieri trovarono delle tracce di sangue sulle scale. Poi, la telefonata di rivendicazione: “Abbiamo rapito vostro figlio”.

I rapitori chiesero un riscatto di quattro miliardi di vecchie lire. La tragedia, però, era dietro l’angolo. Lo studente sarebbe stato ucciso dopo ventuno giorni di prigionia a bastonate e con quattro colpi di pistola mentre tentava di fuggire. Il corpo fu abbandonato in una stradina di campagna. Nel settembre del 1979 Di Pietro viene arrestato in Argentina per rapina, furto e falsificazione di documenti. La polizia gli sequestrò una serie di documenti che tiravano in ballo il suo coinvolgimento nella terribile storia di Franz Trovato. Di Pietro non agì da solo, anche se ammise all’Interpol che lo bloccò una seconda volta nel 1990 a Buenos Aires, di esser stato uno dei promotori della banda composta da dieci persone che ideò il sequestro. Quelle persone furono tutte individuate e arrestate. Il 10 maggio 1979 arrivò la sentenza di condanna, confermata in appello il 6 maggio 1981 e resa definitiva dalla Cassazione che il 28 gennaio 1981 respinse il ricorso degli imputati. Due di loro furono condannati all’ergastolo, gli altri a pene pesantissime. Tra di loro c’era Di Pietro, dichiarato colpevole in contumacia. Nel frattempo aveva fatto le valigie per trasferirsi oltre oceano. E qui si innesca la parte più misteriosa della faccenda.

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A fine ottobre 2012 l’avvocato De Lisi, ipotizziamo contattato dal suo stesso cliente, avanza istanza di incidente di esecuzione che, così si legge nell’ordinanza della Corte d’appello, il procuratore generale di Catania ha fatto sua. Alla fine, infatti, la richiesta di dichiarazione di estinzione della pena risulta firmata dalla Procura generale. Nella stessa ordinanza si legge che Di Pietro, “benché risultato reperibile nello stato dell’Argentina, queste autorità hanno sino ad oggi negato l’estradizione del condannato”. Il governo argentino disse dunque no all’estradizione di Di Pietro quando la polizia internazionale lo arrestò nel 1990? Già allora non esistevano degli accordi fra Italia e Argentina per il trasferimento dei condannati? Il primo, infatti, risulta siglato nel 1987. Resta da valutare se il caso di Di Pietro rientrava o meno fra quelli previsti dal trattato. Nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Catania la notizia non è passata inosservata. E c’è chi ha tirato in ballo una vecchia faccenda. Sembrerebbe, infatti, che all’inizio degli anni Ottanta l’archivio del Tribunale di Catania si sia allagato. Che la sentenza non sia stata notificata a Di Pietro perché è andata distrutta? Il dubbio c’è. Così come c’è la certezza che Giovanni Di Pietro oggi è un un uomo libero.

Sono decorsi i 30 anni entro i quali la condanna doveva essere messa in esecuzione. E potrebbe anche tornare ad Acireale dove alla fine degli anni Settanta rapì e uccise uno studente universitario, figlio di un industriale che si era spogliato dell’abito talare per sposarsi e mettere su famiglia. E si era fatto strada nel mondo dell’imprenditoria. Non poteva certo immaginare, un giorno, di dove piangere un figlio per una morte così violenta.

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15 Luglio 2013, 06:00

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