14 Luglio 2009, 10:56
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(di Francesco La Licata – da La Stampa) Revisione del processo. E’ l’incubo che accompagna il diciassettesimo anniversario della strage di via D’Amelio, a Palermo. Per anni si è data per scontata una verità processuale (indennizzo consolatorio per familiari, amici delle vittime e società civile) consacrata nella condanna all’ergastolo di mafiosi piccoli e grandi, la «cupola» di Riina e i tanti gregari, indicati come organizzatori ed esecutori dell’attentato del 19 luglio 1992 che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque agenti della scorta. Domenica prossima, per la prima volta invece, si commemorerà Borsellino avendo ben presente la certezza, più che il dubbio, che gli avvocati di molti degli imputati del dibattimento di via D’Amelio, anche alcuni condannati in via definitiva, si apprestano a chiedere la revisione del processo. Il tam tam palermitano è in fermento da quando è scoppiata la «bomba Spatuzza» cioè la rivoluzione processuale innescata dalle rivelazioni del neopentito Gaspare Spatuzza, affidate ad alcuni colloqui investigativi intrattenuti col Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso.
Questa rivoluzione annulla, in sostanza, il ruolo fondamentale a suo tempo assunto dal pentito principale dell’inchiesta, Vincenzo Scarantino, che si autoaccusò del furto e della «preparazione» della «126» usata come autobomba in via D’Amelio. Questa confessione fu fatta agli investigatori del «Gruppo Falcone-Borsellino» del questore Arnaldo La Barbera e fu presa per buona anche contro non poche osservazioni critiche, come quelle di Ilda Boccassini, allora pm a Caltanissetta. Quando finì il periodo di applicazione, la Boccassini lasciò agli atti una relazione, firmata anche dal collega Roberto Saieva, che suscitava perplessità sull’attendibilità di Scarantino. In particolare, la discrepanza sul furto della «126»: Scarantino aveva detto di averla rubata su indicazione di Salvatore Candura (arrestato), poi aveva affermato che era stato lui a commissionare il furto all’altro.
Ma oggi Gaspare Spatuzza taglia la testa al toro: l’auto l’ho rubata io, Scarantino e Candura hanno mentito. Un anno di accertamenti della Procura di Caltanissetta dimostrano la sua piena attendibilità. Tutto ciò che racconta sembra essere stato accertato nei minimi particolari. Non solo, Salvatore Candura – dopo una prima difesa della posizione – ha ritrattato la vecchia versione, aggiungendo di essere stato costretto a inventare dalla polizia e coinvolgendo anche Scarantino. Il gruppo di investigatori dell’epoca sono entrati così nel mirino delle nuove indagini, che sembrano aver preso una piega clamorosa e preoccupante. Ci sono stati – come denuncia Candura – maltrattamenti e percosse? La Procura di Caltanissetta lavora in silenzio e finora è riuscita a difendere il risultato dell’inchiesta da «spifferi» e fughe di notizie. Una riservatezza che non ha impedito un primo screening di imputati destinati alla revisione del processo. Sono due i più accreditati: Salvatore Profeta (condannato all’ergastolo) in quanto accusato da Scarantino di essere il committente del furto dell’auto e Salvatore Orofino (scarcerato dopo otto anni), indicato dal pentito come il proprietario del garage dove fu «preparata» l’autobomba. E almeno altri cinque detenuti all’ergastolo attendono l’evolversi della nuova inchiesta per accodarsi all’inevitabile richiesta di revisione.
Ma il quadro generale di quello che è stato lo stragismo mafioso sembra essere destinato ad una revisione consistente, anche alla luce di nuovi impulsi che sono giunti da altri testi. E prende corpo una strategia criminale alla quale sembra non siano stati estranei anche elementi di organismi istituzionali preposti alla sicurezza. Falcone, Borsellino e gli attentati del ‘93 a Roma, Firenze e Milano: un filo unico teso a imporre allo Stato quella «trattativa» tornata agli onori della cronaca attraverso l’imprevista collaborazione di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco Dc di Palermo, quel don Vito scelto da Cosa nostra come mediatore ed ambasciatore della mafia corleonese presso lo Stato italiano.
Massimo Ciancimino afferma di essere in possesso del «papello», la carta con le richieste di Totò Riina in favore del popolo di Cosa nostra. Ma ha anche aggiunto che quel «papello» (una copia, ovviamente) fu consegnato ai carabinieri del Ros, impegnati nel tentativo di far cessare gli attentati mafiosi, ma anche ad un «certo signore biondino ed elegante» – una volta è chiamato Carlo, un’altra volta Franco – che da tempo coltivava una buona amicizia col padre. Chi è Carlo? Ciancimino ne ha parlato coi magistrati di Palermo e Caltanissetta, ma le sue risposte sono ancora avvolte dal segreto. Un fatto sembra certo: il «biondino» e il vecchio Ciancimino costituivano un’antica «sinergia». Tanto che, dice ancora Massimo, anche la lettera di minacce inviata da Provenzano a Berlusconi, tra il 1991 e il ‘94, prima fu portata al padre in carcere, poi consegnata ancora al solito «biondino». Insomma, la storia delle stragi sembra fortemente condizionata da oscure presenze. Fin dall’inizio, che oggi forse è possibile datare col fallito attentato a Giovanni Falcone del giugno 1989. Anche quell’indagine, che sembrava definitivamente chiusa, appare rivitalizzata da nuovi impulsi. Le ricerche sono concentrate su un poliziotto che ha lavorato a Palermo e poi sembra essere scomparso. Uno strano tipo con gravi malformazioni al viso, dicono di lui. E c’è un testimone che racconta cose strane. Dice che i sabotatori arrivarono su un gommone con la dinamite, mentre poco distante esponenti della «famiglia» di «Acquasanta» facevano il bagno e forse controllavano lo svolgimento dei «lavori». Ancora una innaturale «sinergia» fra guardie e ladri? Questo «film» non sfuggì ad un malavitoso della borgata, Francesco Paolo Gaeta, che perciò fu tenuto a lungo sotto controllo. Il ragazzo non dava affidamento: era anche tossico e avrebbe potuto parlare. Fu ucciso a revolverate e il delitto fu fatto passare per regolamento di conti tra piccoli delinquenti.
Borsellino una spy story? Acclarati risultati investigativi ci dicono che lo stragismo fu una “precisa scelta” di Cosa nostra, da preferire al tradizionale ricorso all’omicidio classico. La volontà, dunque, di dare una valenza politica all’”Operazione Borsellino”. Perché? Chi ideò una simile sceneggiatura? Scrive Piero Grasso nell’ultimo suo libro: «Fu la prospettiva che Borsellino diventasse Procuratore nazionale antimafia? Il timore di nuove indagini su mafia e appalti? Fu la “trattativa” già iniziata che aveva bisogno di un supplemento di terrore per alzare il prezzo per la sospensione delle stragi? Fu il coacervo di interessi di entità esterne che vedevano in pericolo i loro lucrosi affari e gli illeciti profitti? Il paventato pericolo di una svolta verso i partiti popolari dopo Tangentopoli? Probabilmente ciascuna e tutte queste motivazioni insieme».
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