Dalla Sicilia a Brooklyn| Storia di boss fuggiti in America

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03 Febbraio 2017, 06:39

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PALERMO – E siamo a tre negli ultimi mesi. Tre mafiosi, o presunti tali, “fuggiti” negli Stati Uniti. Salvatore Lombardo e Giovanni Di Marco girano a piede libero. Ferdinando Gallina è stato fermato perché a New York vi è arrivato clandestinamente. Una volta in Italia lo attenderà la pesantissima accusa di omicidio. Forse il pentimento di Antonino Pipitone lo aveva spaventato a tal punto da rischiare l’ingresso in un paese straniero senza avere i documenti in regola.

Pipitone, boss di Carini, racconta i retroscena dell’omicidio di Francesco Giambanco, un ragazzo che nel 2000 pagò con la vita alcuni furti e incendi messi a segno senza l’autorizzazione della famiglia mafiosa di Carini, alleata con i Lo Piccolo, boss di San Lorenzo. “L’ordine di uccidere questo ragazzo proveniva dai miei zii Giovan Battista e Vincenzo, nonché da Antonino Di Maggio – mette a verbale il pentito lo scorso ottobre – so che questo ragazzo aveva dato fastidio muovendosi per furto o altro senza autorizzazione… la decisione mi fu comunicata a fondo Giglio, nella campagna di mio zio Giovan Battista, oltre a me c’erano Giovanni Cataldo (oggi deceduto, ndr), Gaspare Pulizzi, Ferdinando Gallina e Antonino Di Maggio. I miei zii dissero – aggiunge – che i Lo Piccolo, Sandro e Salvatore, erano d’accordo…. qualche giorno dopo Cataldo chiamò Giambanco e gli diede un appuntamento al suo deposito dietro il cimitero di Carini”.

Ed è qui che fu consumato il delitto: “… mentre Cataldo parlava con Giambanco, che era arrivato con una jeep, io, Pulizzi e Gallina uscimmo allo scoperto, prendemmo la vittima per le mani e i piedi, Cataldo lo colpì alla testa con un attrezzo da lavoro… a Giambanco scivolò una 357 magnum… la prese per ricordo Gallina… la jeep con il cadavere fu guidata da Pulizzi, io ero con Gallina in una macchina dietro. Cataldo rimase nel deposito per ripulirlo dal sangue, arrivati nei pressi di un torrente incendiammo la macchina”. Quel che restava del cadavere di Giambanco fu ritrovato qualche giorno dopo dalla polizia.

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Diverso è il caso di Salvatore Lombardo e Giovanni Di Marco. Tutti e due sono emigrati a New York poco prima che finissero nei guai giudiziari. Per lo Stato italiano sono latitanti. Il primo, qualche mese fa, è stato condannato a otto anni dal Tribunale di Palermo. Classe 1969, avrebbe fatto parte della famiglia mafiosa di Montelepre con un compito delicato: tenere i rapporti fra i boss americani e quelli siciliani. Solo che negli Stati Uniti non basta la “generica” accusa di associazione mafiosa per arrestare una persona. E’ necessaria la contestazione dei cosiddetti “reati fine” cioè di reati specifici che vengono commessi in nome e per conto di Cosa nostra. E Lombardo, dotato di passaporto americano, negli States è un uomo libero. Stessa cosa per Di Marco che a Palermo sarà processato a breve. L’avviso di conclusione delle indagini, per lui come per altre 79 persone, è stato firmato due giorni fa. Viene considerato uomo d’onore di Cerda e addetto alle estorsioni. Finì in cella in un mega blitz che azzerò i clan di una mafia da sempre legata con i boss d’oltreoceano.

Tutto cominciò con le famiglie Gambino, Bonanno, Genovese (fondata negli anni Trenta da Charles Lucky Luciano) e Lucchese. Famiglie che in America avevano fatto soldi a palate con la droga e poi si erano infiltrate nei grandi appalti, nelle commesse pubbliche e nell’alta finanza. Erano gli anni Ottanta e i corleonesi erano diventati i signori del narcotraffico grazie agli agganci americani. Dai paesi orientali si importavano tonnellate di morfina che abili chimici assoldati dalla mafia siciliana trasformavano in eroina purissima. Nel 2003, nella speranza di rivivere quella stagione di grandi affari, Bernardo Provenzano inviò i suoi emissari per riattivare i rapporti con le famiglie di New York. Si affidò a Nicola Mandalà, 40 anni, rampante boss di Villabate, e Gianni Nicchi, 27 anni, u picciutteddu che il padrino Nino Rotolo volle accanto a sé nel mandamento di Pagliarelli. Giovani e affidabili, ma pur sempre giovani. E così i poliziotti avrebbero scovato le fotografie che li ritraevano, con ragazze al seguito, a bordo di lussuose Limousine o al tavolo di prestigiosi ristoranti. Tutto a spese di Cosa nostra. Qualche tempo dopo ci sarebbe stata una seconda missione. Con Mandalà, ma senza Nicchi. Nel frattempo, infatti, era scoppiata di nuovo la grana degli scappati. Salvatore Lo Piccolo, boss di San Lorenzo, pianificava il rientro di coloro che erano fuggiti in America per scampare al piombo corleonese nella guerra degli anni Ottanta. Rotolo, padrino di Nicchi, degli scappati non voleva neppure sentire l’odore.

Ed, invece, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila i sopravvissuti cominciarono a rientrare. Per primi gli Inzerillo. Rotolo era una furia, ma non riuscì, però, a tirare dalla sua parte Provenzano, che prendeva tempo: “Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno – scriveva nelle sue lettere – a decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo”. La verità è che i soldi degli Inzerillo facevano gola. Oggi i boss siculo-americani hanno ancora grandi disponibilità finanziarie, ma il loro potere è offuscato dal nuovo che avanza e parla cinese, colombiano e messicano. 

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03 Febbraio 2017, 06:39

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