La verità negata e quel depistaggio che andava fermato

La verità negata sulle stragi, quel depistaggio che andava fermato

I buchi neri ci sono, ma nessuno nella magistratura ha fatto pubblica ammenda

PALERMO – “Le mie parti civili devono leccarsi non solo le ferite della strage di via D’Amelio ma anche del depistaggio. Abbiate pietà da questo punto di vista. Si poteva fermare quel depistaggio”.

Queste parole sono state pronunciate in un’aula di giustizia, a Caltanissetta. L’arringa dell’avvocato Fabio Trizzino, che è anche marito di uno dei figli di Paolo Borsellino, Lucia, resteranno per sempre agli atti del processo e della storia giudiziaria del nostro Paese.

Non si potrà fare finta di non averle sentite. Il concetto è semplice. C’erano tutti i presupposti per capire che Vincenzo Scarantino, malacarne di borgata e criminale di mezzatacca, non poteva essere lo stragista che diceva di essere. Qualcuno ha voluto che divenisse tale, ma qualcun altro che poteva smascherarlo non se n’è accorto. Distrazione di massa.

Che giustizia abbiamo dato ai nostri eroi trucidati? A 30 anni dagli eccidi dovremmo chiedercelo. Tutti e tutti i giorni. Nessuno escluso, stampa e magistratura inclusi. Non è questione di cercare colpevoli, ma di impegnarsi per la verità mettendo da parte il dogma dell’infallibilità della magistratura. Perché il fatto che una parte di essa abbia creduto alle fantasie dell’indottrinato Scarantino ha allontanato la verità.

Sono stati certamente i mafiosi ad uccidere Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e i tre poliziotti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Ci sono altri responsabili? Chi rese possibile la strage, chi offrì protezione e copertura agli attentatori, quali convergenze di interessi “non mafiosi” ci sono state? Fu la mafia a volere Falcone e Borsellino morti, ma ce n’è abbastanza per ritenere che ci siano connivenze e responsabilità ancora da fare emergere

Ci sono dei buchi, neri e immensi, nella stagione delle stragi. Per tentare di trovarla, la verità, se mai ci si riuscirà, bisogna ammettere le proprie responsabilità. Non si tratta di cercare colpevoli ad ogni costo. Colpevoli non lo sono ad oggi, in uno stato di diritto che ha il principio della non colpevolezza tra i suoi pilasti fondanti, neppure i tre poliziotti sotto processo a Caltanissetta: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di avere imbeccato il falso pentito e suggerito di accusare degli innocenti.

Sulle bugie di Scarantino, piegato da minacce e bastonate, sono stati costruiti processi su processi, spazzati via dalle successive dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, killer pentito di Brancaccio. C’erano, però, tutti i segnali per smascherarlo subito. A cominciare dai confronti con altri collaboratori di giustizia.

Nel 1995 Scarantino si trova faccia a faccia con Gioacchino La Barbera, Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi, e cioè con tre pentiti di spessore. Scarantino sostiene di avere partecipato con loro alla riunione decisiva in cui si diede il via libera alla strage. Se Scarantino “fa parte di Cosa Nostra” allora “sono cambiate le regole”, dice La Barbera. Di Matteo taglia corto: “… o tu sbagli persona o stai dicendo un sacco di cazzate”. Cancemi è il più tranciante: “… tu non lo sai cosa significa uomo d’onore, tu sei bugiardo… quello che vi sta dicendo (rivolto ai magistrati) è una lezione che qualcuno gli ha messo in bocca”.

La sola parentela acquisita con il boss Salvatore Profeta di Santa Maria di Gesù non poteva giustificare la sua partecipazione alla strage. È la distruzione dell’attendibilità di Scarantino, almeno così doveva essere, ma non è stato. I verbali dei confronti vengono depositati solo quando iniziano i processi.

La sentenza Borsellino ter, emessa dalla Corte d’assise di Caltanissetta allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, era stata lapidaria nel giudizio di inattendibilità di Scarantino. Nelle motivazioni si parlava di “parto della fantasia”.

I pubblici ministeri del Borsellino bis (Anna Maria Palma e Antonino Di Matteo) andarono avanti e proposero appello contro le assoluzioni, seguiti poi dai procuratori generali. Su Palma e il collega Carmelo Petralia, che invece istruirono gli altri processi, si è anche ipotizzata una responsabilità penale, ma l’inchiesta è stata archiviata da tempo dalla Procura di Messina.

Ilda Boccassini, il primo pm a incontrare il neo pentito Scarantino, nel 1994, al termine di un interrogatorio e Jesolo, scrisse una lettera ai colleghi: “Ma vi rendete conto – diceva – che non ha riconosciuto le persone, ha scambiato i tizi, i baffi, non i baffi”. Scarantino era inattendibile anche per un altro pm, Roberto Sajeva: “Le prime dichiarazioni avevano suscitato delle perplessità” per via di una “verosimiglianza discutibile” e poi via via si erano aperte “falle più grosse”.

Molti sapevano, dunque, ma lo scempio dei processi costruiti su basi di cartapesta non è stato fermato e la verità si è allontanata. Scarantino è stato creduto da decine di magistrati, requirenti e giudicanti. I buchi neri ci sono, ma forse si poteva fare luce di di essi se solo si fosse smascherato Scarantino subito. Non è andata così, nessuno ha fatto pubblica ammenda per errori eventualmente commessi in buona fede. Il tempo è il peggiore alleato della verità.

“Si sono spaventati? Avevano paura di buttare giù tutto l’edificio che stavano tirando su? Di fronte a certe storture procedurali – ha detto Trizzino – rimango allibito”.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI