08 Gennaio 2020, 05:30
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PALERMO – “Non è semplice raccontare cosa è stata la mia vita in ventitré anni di matrimonio…”. Alla vigilia del processo ha preso carta e penna. Non è solo la memoria difensiva di un’imputata, ma la ricostruzione di una donna la cui vita è stata segnata da violenze, soprusi e umiliazioni subite dal marito.
A scrivere è Salvatrice Spataro, 46 anni, che assieme ai figli Mario e Vittorio, poco più che ventenni, è accusata dell’omicidio del marito Pietro Ferrera, ucciso con decine di coltellate nel dicembre 2018 in un appartamento di via Falsomiele, a Palermo. Le otto pagine digitate al computer sono entrate nel fascicolo dibattimentale su richiesta dei legali della difesa, gli avvocati Giovanni Castronovo e Maria La Verde.
Madre e figli si trovano agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. Hanno confessato il delitto e ora la donna cerca di spiegare al magistrato che deve giudicarla perché una donna e due giovani uomini si siano trasformati in assassini; perché in una casa palermitana in un giorno di dicembre sia esplosa tanta violenza. La donna cita episodi e fa i nomi di testimoni che hanno assistito al suo dramma e potrebbero confermarlo.
La memoria parte dal primo anno di vita insieme quando “lui mi riempiva di attenzioni, mi regalava fiori e preziosi”. Presto le cose cambiarono. Già il giorno del battesimo del primo figlio, Vittorio, si manifestò in lui un’inaspettata gelosia: “Mi strappò il vestito di dosso, accusandomi di avere incrociato lo sguardo con quello del sacerdote”. Sperava che fosse un episodio: “Lo amavo da morire sarebbe cambiato… ne ero certo mi ripetevo che a vent’anni erano sciocchezze… che il nostro amore avrebbe superato”.
Non andò così. Anche i figli iniziarono ad essere vittime della violenza del padre: “Una semplice giornata al mare si trasformò in un incubo… il bambino aveva bisticciato con il cugino e non era riuscito a difendersi… intervenne il padre afferrandolo con forza dai capelli e scaraventandolo con la testa contro la sabbia”. Stessa sorte toccò all’altro figlio, la cui testa venne sbattuta violentemente contro il piatto perché non voleva mangiare”.
Sono pagine che, se il racconto della donna venisse confermato, lasciano sgomenti. Salvatrice Spataro ricorda “la volte in cui cercò di soffocarmi con il cuscino”, “il coltello conficcato sul braccio perché geloso del cameriere”, “il filo del caricabatterie stretto attorno al collo per strangolarmi”, “la testa spinta nell’acqua bollente” o “sbattuta contro il muro fino a perdere i sensi”, “i lividi al volto coperti con il trucco”.
È una escalation di orrori che la spingono a definirsi “privata della dignità di donna”. E qui il racconto si fa intimo. Si scende nei dettagli di rapporti sessuali morbosi, non voluti e imposti dal marito: “Mai sono riuscita a dare sfogo ai miei sogni, ai miei desideri, alla mia femminilità e forse mai più potrò rinascere segnata ormai da così tanto male”.
Spataro spiega di avere anche provato a fare qualcosa. Si è rivolta a un sacerdote, ha provato a convincere il marito a farsi visitare da uno psichiatra o a sottoporsi a una terapia di coppia. Tutto inutile, l’uomo avrebbe iniziato a bere e consumare droghe. Sono arrivate le minacce di morte, con quel grosso coltello da cucina sempre in mostra sul tavolo.
L’unica cosa da fare era denunciare. Era pronta a farlo, dopo avere superato “il terrore e la paura di denunciare”. Ne aveva parlato con un parente agente della Dia in pensione. Non avrebbe avuto il tempo di farlo.
Il racconto culmina nel giorno dell’omicidio. Parte da quel rapporto sessuale, l’ennesimo, che il marito voleva imporle con la violenza. Erano in camera da letto, lei riuscì a liberarsi. Andò in cucina: “La mia testa era un vulcano di pensieri, dolori turbamenti. Vedevo scorrere le immagini di una vita di violenza, della denuncia che avrei dovuto fare l’indomani, dei miei figli e dei miei cari tutti morti nelle bare… dolori, atrocità troppi grandi da sopportare…”.
Ed esplose la collera: “… così disperata e fuori di me presi un coltello dal cassetto della cucina e andai dritta verso di lui. Lo colpii più volte, ma nonostante i colpi ricevuti, reagì battendomi al muro. Gridai aiuto Mario sentite le mie urla si precipitò in camera da letto. Cercò di difendermi. Io rimasi pietrificata. Sentii come il ruggito di un leone e imbalsamata pensai di sognare… non stava accadendo tutto veramente. Mi scosse la voce dei miei figli che mi urlarono di chiamare il 118. Mi accorsi che Vittorio era tutto insanguinato e il padre era per terra immobile. Chiamai i soccorsi e giunse la polizia”. E ora, di quella che poteva essere e non è stata una vita, resta l’immagine di una fotografia.
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08 Gennaio 2020, 05:30