Sopravvissuto a Punta Raisi| “Non ci accorgemmo di precipitare”

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29 Marzo 2015, 06:25

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PALERMO – Hanno urlato soltanto per pochi istanti. Poco prima dell’impatto si sono resi conto che la fine, purtroppo, era vicina. Poi lo schianto sulle Alpi francesi. La scatola nera dell’aereo della Germanwings documenterebbe la consapevolezza dei passeggeri di quello che stava accadendo, il terrore di quegli ultimi attimi in volo, in balia di un destino atroce. E la città d’arrivo era ancora lontana.

Erano invece arrivati a casa i passeggeri del volo Alitalia 4128 Roma-Palermo che il 23 dicembre 1978 finì in mare con 129 persone: ancora pochi minuti e l’aereo avrebbe toccato terra. Un disastro che avvenne soltanto sei anni dopo quello di Montagna Longa e che fu attribuito ad un errore dei piloti, che ritennero di essere più vicini all’aeroporto di arrivo di quanto in realtà fossero: decisero di effettuare la discesa finale prematuramente, ma finirono in mare.

Chi si trovava a bordo si rese conto di essere nel bel mezzo di una tragedia immane soltanto quando si trovò in acqua, circondato dai bagagli, dagli altri passeggeri che cercavano disperatamente di mantenersi a galla circondati dal buio più profondo. Le urla e il terrore arrivarono mentre tentavano di sopravvivere nell’acqua gelida di una notte a pochi giorni dal Natale. Proprio perché le feste erano ormai alle porte, quel giorno il volo portò circa dieci ore di ritardo a Fiumicino. Carlo Pavone, professore di Urologia all’Università di Palermo e direttore dell’Unità operativa e della scuola di specializzazione di Urologia, è uno dei ventuno sopravvissuti del disastro. All’epoca aveva vent’anni e studiava medicina all’università di Roma.

“Ogni volta che cade un aereo il mio telefono impazzisce. Molti vogliono che io racconti la mia esperienza, mi chiedono cosa provo quando vedo in tv le immagini di altri disastri. E mi viene detto che sono stato fortunato. In realtà prendere quel volo è stata la mia più grande sfortuna. Salire su quell’aereo è stata una sciagura. Sì, sono riuscito a salvarmi, ma quella sera avevo intuito subito che c’era qualcosa che non andava. C’era molta tensione a bordo, capii immediatamente che anche l’equipaggio era molto nervoso, probabilmente per i voli extra che furono necessari per via del massiccio traffico aereo pre natalizio. Basti pensare che quando mi sedetti e chiesi un bicchiere d’acqua, mi fu risposto dall’hostess di andarmelo a prendere da solo”.

Il racconto di Pavone è pieno di flash, aneddotti e dettagli che anno dopo anno dal disastro sono diventati sempre più nitidi nella sua mente. “Ricordo perfettamente che ero convinto ormai di essere giunto a casa. Nello stesso istante mi trovai in fondo al mare. Vidi i sedili che si sganciavano, quando riemersi mi ritrovai circondato da teste galleggianti. Il buio era fitto intorno a noi. Il terrore provocò una raffica di pensieri nella mia mente perché credevo sarei morto e che avrei perso tutto quello che avevo costruito fino a quel momento. Allora mi trovai di fronte a un bivio: nuotare fino alla riva, che era però troppo distante, o attendere che si avvicinassero i pescherecci le quali luci, probabilmente, erano state scambiate dai piloti per quelle dell’aeroporto”.

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La voglia di vivere superò qualunque ostacolo. Anche quello di una vertebra schiacciata, delle gambe che non si muovevano più, della paura pietrificante. Carlo Pavone nuotò, lo fece con tutte le sue forze. Con la minaccia della morte che gli camminava accanto, arrivò fino al peschereccio “Nuovo Pacifico”, che rappresentò la sua salvezza e quella di altre quattordici persone. Altri sei passeggeri furono messi in salvo dal “Santa Rita”.

“Mi aiutarono a salire. Mi appoggiai solo con le braccia, non  sentivo le gambe. Volevo rialzarmi, dare una mano per mettere al sicuro gli altri. Ma non ci riuscii. Allora mi trascinai in un angolo coprendomi con una ceratina, dopo mezz’ora nell’acqua ghiacciata ero distrutto. Vidi un uomo che stava salendo sulla scaletta del peschereccio. Con le braccia deboli stava per arrivare su, ma poi mollò la presa. Si sarebbe salvato, come tante altre decine di persone, se fossero arrivati i soccorsi via mare. Invece nulla, fummo lasciati da soli in mezzo al nulla”.

E così, lo scalo palermitano tra il mare e la montagna che nell’immaginario comune dei siciliani è sinonimo di “casa”, fece da scenario ad una notte di morte che entrò nella storia dei disastri aerei che fecero più vittime. “Se succedesse oggi la macchina dei soccorsi sarebbe migliore? – Si chiede Pavone -. Si interverrebbe via mare o si lascerebbero di nuovo morire centinaia di persone? E ci penso ogni volta che mi capita di passare davanti allo sfasciacarrozze dalle parti di Villabate. I resti dell’aereo si trovano lì, tra le lamiere di auto e furgoni ormai in disuso. Sono le briciole di quel disastro per le quali le parole non bastano. Un’esperienza di fronte alla quale ho inizialmente reagito continuando a viaggiare in aereo, ma ormai non volo più”.

Carlo Pavone non prende infatti l’aereo ormai da tempo: “Subito dopo l’incidente mi recai nuovamente a Roma, dopo soltanto un mese. Dovevo sostenere l’esame di Anatomia e non avevo alcuna intenzione di saltarlo, anche se ero praticamente ingessato per intero. Avevo un busto, i miei movimenti erano molto limitati. Decisi lo stesso di prendere l’aereo, ma con una precauzione: portai con me un seghetto. Pensai che se fossimo precipitati di nuovo avrei potuto togliermi il gesso e cercare di salvarmi. Per fortuna andò tutto bene”. Oggi Pavone ha una famiglia, quattro figli, una vita piena di gratificazioni. “Forse c’è un motivo per il quale sono sopravvissuto – dice -. Forse uno dei miei figli, un giorno, farà qualcosa di grandioso. Nel frattempo, io, dopo aver viaggiato in lungo e largo per il mondo, sia per piacere che per il mio lavoro, ho deciso quindici anni fa, al ritorno da un congresso in Canada, di non metter più piede su un aereo – conclude, sorridendo -. Chi me lo fa fare?”.

 

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29 Marzo 2015, 06:25

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