Economia

South Working, ‘treni pieni’ di lavoratori dal Sud: l’identikit

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18 Novembre 2020, 15:04

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PALERMO – Immaginiamo cento treni ad alta velocità riempiti esclusivamente da coloro che tornano dal Centro-Nord al Sud. Con questa ‘fotografia’ potremo avere un’idea della portata che sta assumendo il fenomeno del “South Working”, che conta 45 mila persone al lavoro dal Sud d’Italia per conto di grandi imprese sparse nel resto del Paese. Lo stima Datamining per conto della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, attraverso un’indagine condotta su 150 grandi imprese con oltre 250 addetti che operano nei settori manifatturiero e dei servizi. I risultati sono contenuti nel rapporto Svimez 2020, che sarà presentato martedì 24 novembre.

E ci sono ragioni per credere che i dati siano solo indicativi di una realtà più vasta: si stima che durante il lockdown, tenendo conto anche delle imprese piccole e medie in termini di addetti, il South Working possa aver riguardato circa 100 mila lavoratori meridionali. Grandi numeri, ma anche questi non sono che la punta dell’iceberg: nello studio si precisa che attualmente sono circa due milioni gli occupati meridionali che lavorano nel Centro-Nord.

L’identikit del lavoratore dal Sud

Ma chi sarebbe il south worker tipo? Il focus sul capitolo in questione del rapporto Svimez è stato redatto dai palermitani Elena Militello e Mario Mirabile, presidente e vicepresidente dell’associazione dietro al progetto South Working-Lavorare dal Sud, che hanno tracciato una sorta di identikit. In base ai dati che hanno raccolto, l’85,3 per cento degli intervistati andrebbe (o tornerebbe) a vivere al Sud se fosse loro consentito e se potessero mantenere il lavoro da remoto. Il gruppo fondato da Militello ha condotto una ricerca su un campione di duemila lavoratori, rilevando che circa l’80 per cento ha tra i 25 e i 40 anni, possiede elevati titoli di studio (principalmente in Ingegneria, Economia e Giurisprudenza) e nel 63 per cento dei casi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Risultati che insieme ad altri motivi hanno portato il progetto South Working-Lavorare dal Sud alla fase operativa, con l’avvio di una campagna di adesioni e di una rete di sostegno ai lavoratori.

South Working, cosa bolle in pentola

I primi, ambiziosi passaggi sono già realtà. Nel corso di un incontro promosso dalla Fondazione con il Sud, il presidente Carlo Borgomeo ha rilevato che “in questi mesi non si è solo dato un nome al fenomeno con l’associazione South Working, ma si è strutturato il lavoro che ha trovato in Fondazione con il Sudampio consenso e una forma di concreto sostegno, perché da sempre promuoviamo processi che possano rendere attrattivi i territori del Mezzogiorno. Con altri progetti abbiamo favorito il trasferimento al Sud di ricercatori del Nord o stranieri – aggiunge Borgomeo – perché crediamo fermamente che attrarre giovani talenti al Sud ne rafforzi il capitale sociale e quindi i processi di sviluppo. South Working è perfettamente in linea con i nostri obiettivi”.

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Il ‘bersaglio grosso’ è un traguardo complesso ma non impossibile: poter offrire ai lavoratori meridionali occupati al Centro-Nord la possibilità di lavorare dai rispettivi territori di origine, così da riattivare un accumulo di capitale umano che nel Mezzogiorno è bloccato da anni. Così la Svimez propone l’identificazione di un target dei potenziali beneficiari di misure per il South Working: occorrerebbe concentrare gli interventi per riportare al Sud giovani meridionali dai 25 ai 34 anni, laureati e occupati al Centro-Nord. Avvalendosi dei dati Istat sulla forza lavoro e quelli relativi all’indagine sull’inserimento professionale dei laureati italiani, è stato stimato che la platea degli interessati ammonterebbe a circa 60 mila giovani.

L’osservatorio e le proposte

Dall’altra parte una statistica impietosa: negli ultimi vent’anni, circa un milione di giovani ha lasciato il Sud senza tornarci. Alla luce di tutto ciò la Svimez ha creato un Osservatorio sul South Working, con cui intende “avviare un pacchetto di misure a sostegno” del fenomeno. Lo spiega il direttore Luca Bianchi, osservando che gli interventi potrebbero “favorire la riattivazione di quelle precondizioni dello sviluppo da troppi anni abbandonate. Il South Working potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di deaccumulazione di capitale umano qualificato, iniziati da un ventennio e che stanno irreversibilmente compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese.

“Per realizzare questa nuova opportunità – precisa il direttore della Svimez – è tuttavia indispensabile costruire intorno a essa una politica di attrazione di competenze, con un pacchetto di interventi concentrato su quattro cluster: incentivi di tipo fiscale e contributivo, creazione di spazi di coworking, investimenti sull’offerta di servizi alle famiglie come asili nido, tempo pieno, servizi sanitari”, e infine “infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap tra Nord e Sud e tra aree urbane e periferiche”.

Un processo durante il quale South Working-Lavorare dal Sud non vuole certo restare a guardare. Militello, Mirabile e gli altri membri del direttivo infatti hanno già chiaro uno schema per l’affermazione del lavoro dal Sud (rappresentato nell’immagine sopra). Proposte che il gruppo definisce “dal basso” e che coinvolgono il Ministero per il Sud e la Coesione territoriale, guidato dal ministro siciliano Giuseppe Provenzano, ma anche l’Anci (Associazione nazionale Comuni italiani) e i singoli Comuni “a livello siciliano e ci auguriamo anche nazionale”. Un aspetto centrale, caro all’associazione, riguarderebbe la decontribuzione del 30 per cento per le imprese con lavoratori agili dal Mezzogiorno. “Dato che i south workers sono decine di migliaia, le aziende sono molto interessate – commenta Mario Mirabile – ma sono necessari diversi chiarimenti a livello normativo. È uno dei tanti fronti su cui siamo al lavoro”.

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18 Novembre 2020, 15:04

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