24 Gennaio 2022, 20:05
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PALERMO – C’erano le spese per il funzionamento dei gruppi parlamentari e quelle di rappresentanza. Tutte legittime. Ma c’erano anche quelle bollate come “personali”, “ingiustificate” e ”superflue”. Con l’aggettivo “pazze” si rimarcava il fatto che nulla avessero a che fare con la politica.
Cosa c’entravano con la politica, infatti, le maniglie delle porte di uno studio privato, i carré di seta, la spesa al supermercato e il barbecue? Niente, secondo i giudici della terza sezione del Tribunale di Palermo che esattamente un anno fa depositarono le motivazioni della sentenza con cui nell’estate precedente condannarono in primo grado Cataldo Fiorenza Gruppo Misto (3 anni e 8 mesi), Giulia Adamo Pdl, Gruppo Misto e Udc (3 anni e 6 mesi), Rudi Maira Udc e Pid (4 anni e 6 mesi), Livio Marrocco (Pdl e Futuro e libertà (3 anni), Salvo Pogliese Pdl (4 anni e 3 mesi).
Il procuratore aggiunto Sergio Demontis e il sostituto Laura Siani, prematuramente scomparsa, assieme ai finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria passarono al setaccio le spese dei capigruppo in carica dal 2008 al 2012.
Più di ottanta erano stati gli avvisi di garanzia per altrettanti onorevoli e impiegati. Una prima scrematura condusse i pubblici ministeri ad escludere dalle contestazioni le spese milionarie per gli impiegati. Un comportamento non immune dalla censura solo che tutti i capigruppo coinvolti avevano ricevuto in eredità la situazione e non si potevano mettere alla porta i lavoratori.
L’inchiesta ha seguito due percorsi paralleli. Davanti alla Corte dei conti la maggior parte delle persone chiamate a rispondere delle spese è stata condannata a pagare con sentenze definitive per il danno erariale provocato. In sede penale un paletto fu messo nel primo processo celebrato in abbreviato davanti al giudice per l’udienza preliminare Riccardo Ricciardi che dispose una serie di proscioglimenti vagliati dalla Cassazione.
Per potere contestare il reato di peculato dovevano essersi verificate due condizioni: “La prima è che vi sia prova del fatto che sono state effettuate da parte del parlamentare regionale delle spese attraverso i contributi erogati dall’Assemblea regionale siciliana in capo a ciascun gruppo parlamentare, mediante l’esibizione della relativa documentazione fiscale, contabile ed extracontabile”.
“La seconda condizione – scrisse il giudice Ricciardi – è che vi sia prova del fatto che quella spesa sostenuta dal parlamentare regionale e comprovata dalla documentazione fiscale acquisita agli atti, sia stata diretta a perseguire un fine non rispondente a quello istituzionale per il quale era stato in precedenza erogato il contributo, essenzialmente legato al funzionamento del gruppo parlamentare che ne è stato il beneficiario”.
Insomma, avrebbe dovuto essere il pubblico ministero a dimostrare che davvero quei soldi fossero stati spesi per fini non istituzionali e non l’imputato a doverli giustificare. Non si poteva ribaltare l’onere della prova. Prova che, secondo l’accusa, sarebbe emersa nel caso dei sei imputati. E il Tribunale ha accolto la ricostruzione della Procura.
A Pogliese sono state contestate due tranche di spese di 41 mila e 31 mila euro. Tra queste, 1.200 euro per la “sostituzione di varie serrature e varie maniglie per porte, con saldature varie ed aggiunzioni pezzi di canaletto per tenuta vetri, pulitura con flex nelle parti ossidate con passaggio di pittura antiruggine” nello studio catanese del padre, la permanenza in albergo con la famiglia e i suoceri, e 280 euro per la retta scolastica del figlio.
Pogliese si è sempre difeso sostenendo di avere anticipato grosse somme di denaro al gruppo e che stava via via rientrando dei soldi che gli spettavano. “La confusione delle somme pubbliche con quelle del proprio patrimonio personale – motivarono i giudici – senza una giustificazione contabile costituisce peculato, non trovando spiegazione plausibile l’affermazione difensiva che si sia trattato di rimborsi per compensare anticipazioni di somme fatte nell’interesse del gruppo”.
Dall’analisi contabile “si ricava che nei due conti (quelli del gruppo, ndr) Pogliese ha gestito una somma pari ad oltre 640.000” elargiti dall’Ars per il funzionamento del gruppo. Da qui la conclusione che “la tesi difensiva secondo cui i conti del gruppo versavano in una situazione di continua sofferenza risulta dunque non documentata ed anzi appare contraddetta dai movimenti registrati e gli estratti conto bancari analizzati dalla guardia di finanza”.
“Non posso nascondere enorme amarezza e grande delusione per una sentenza che trovo assolutamente ingiusta – scrisse il sindaco il giorno della sentenza -. Ma da uomo delle istituzioni la devo accettare e rispettare. Nella mia vita mi sono sempre comportato da persona perbene e onesta interpretando i miei ruoli con grande generosità, passione e infinito amore per la mia terra e per la mia Catania a cui sono visceralmente legato. Lo stesso amore che due anni fa mi ha portato a lasciare un prestigioso ruolo al parlamento europeo per servire la mia città (in dissesto e con 1.580.000 di euro di debiti ereditati ), con una contestuale decurtazione della mia indennità dell’80% e rinunziando alle tutele giuridiche che quel ruolo mi avrebbe garantito”.
“Ho affrontato il processo con grande dignità – proseguiva -, con documenti alla mano, e con decine di testimoni che hanno puntualmente confermato la correttezza del mio operato e l’assoluta unicità di chi ha anticipato ingenti risorse personali per pagare gli stipendi e il tfr dei dipendenti del proprio gruppo parlamentare e le spese di funzionamento, cosa mai accaduta all’Ars e in qualsiasi altro parlamento. Prendo atto con grande delusione che ciò non è bastato a convincere chi doveva giudicarmi. Auspico che l’appello a questa ingiusta sentenza sia quanto prima, affinché possa finalmente trionfare la giustizia”.
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24 Gennaio 2022, 20:05