12 Febbraio 2013, 06:23
3 min di lettura
GELA (CALTANISSETTA) – Tutti d’accordo. A Gela è bastato che mafiosi e stiddari stabilissero di dividere a metà i soldi del pizzo per lasciarsi alle spalle i contrasti del passato.
I carabinieri del reparto territoriale hanno eseguito diciotto ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di altrettanti esponenti mafiosi. Sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, traffico di stupefacenti, detenzione di armi e munizioni. L’operazione, denominata “Agorà”, coordinata dal pubblico ministero Daniele Paci, ha azzerato i vertici della Stidda, catturando capi storici e gregari che controllavano gli affari illeciti, pianificavano attentati e imponevano il pizzo a commercianti e imprenditori. Dure le rappresaglie contro chi si ribellava. Gli sgarri non erano perdonati. Un piccolo criminale rischiò di essere ammazzato per avere bruciato l’automobile a uno stiddaro.
Il pizzo lo pagano tutti. Gli investigatori registrano qualche timido segnale di apertura da parte di commercianti e imprenditori, ma la stragrande maggioranza subisce in silenzio la tassa del racket. Che si paga sotto forma di regali straordinari oppure con scadenze fisse: la festa della santa patrona, Natale e Pasqua. Oppure in concomitanza con l’avvio di una nuova attività commerciale e con l’approssimarsi delle sentenze giudiziarie quando le spese legali aumentano. I boss vogliono mantenere un tenore di vita alto. E i soldi servono pure per fare campare le famiglie dei detenuti. E così la riscossione avviene, come sempre, a tappeto.
Figura di spicco viene individuata in Emanuele Palazzo che aveva fatto della piazza del Municipio il suo quartiere generale dove convocava boss e picciotti. I carabinieri hanno riempito di telecamere piazza San Francesco e hanno registrato il continuo viavai. Nell’ottobre del 2010 hanno filmato due importanti summit organizzati alla luce del sole. Come se nulla fosse. E in piazza che Palazzo ha incontrato Massimo Gerbino e Giuseppe Schembri, considerati elementi di spicco di Cosa nostra.
Attorno a Palazzo ruoterebbe una serie di personaggi che si occupano del lavoro sporco. C’è Giuseppe Alfio Romano, storicamente affiliato alla Stidda e già coinvolto in diverse operazioni quale intermediario tra i vertici dell’organizzazione e i soldati. Legato a Palazzo da amicizia, Romano si sarebbe occupato delle estorsioni e delle ritorsioni nei confronti di chi non voleva pagare. Romano dirigerebbe un vasto, e ancora indeterminato, numero di picciotti. Sono gli esecutori materiali degli atti intimidatori. Soprattutto incendi.
Ed ancora in manette sono finiti i fratelli Davide e Simone Nicastro, figli di quel Pino ucciso nel 1990. Anche loro si occuperebbero della riscossione delle estorsioni. Ad un certo punto avrebbero pure cercato di trattenere una parte degli incassi. I due fratelli sentivano di avere le spalle coperte dagli zii, Salvatore e Vincenzo Nicastro, detenuti a Voghera e Padova.
Massimiliano Tomaselli, invece, si sarebbe occupato di gestire il traffico di droga – oltre 5 chili di droga venduta ogni settimana – servendosi della collaborazione di Carmelo Antonuccio, indicato come il corriere che trasportava gli stupefacenti da Palermo a Gela. A gestire lo spaccio in città sarebbero i fratelli Alessandro e Calogero Orazio Peritore. Altri fedelissimi di Palazzo, con cui sono imparentati, sarebbero i cugini Carmelo e Orazio Luciano Curvà.
Tutti devono rispondere signorsì a Palazzo che, dal canto suo, è subordinato all’autorità del cognato Paolo Di Maggio. Sebbene detenuto da anni, Di Maggio sarebbe il leader indiscusso del clan che sfrutta gli affari della droga per fare soldi a palate. Uno dei canali di approvvigionamento degli spacciatori gelesi sarebbe quello palermitano che fa capo a Pasquale Sanzo. Dal 12 maggio 2010, giorno in cui è stato registrato un incontro tra Sanzo e Tomaselli, è stato documentato il trasporto di dieci carichi per oltre 25 chili di hashish. Nel mondo della droga graviterebbero un altro palermitano, Gaspare Carella, in contatto con il gelese Andrea Mangiameli.
Sul fronte del pizzo, fondamentale seppure isolato, è stato l’apporto di un imprenditore gelese. È stato lui a raccontare che nel lontano 2000 fu costretto a consegnare a Giuseppe D’Arma il 2 per cento su un appalto. Nel 2008 l’uomo del racket cambiò volto e fu Alessandro Antonuccio a chiedergli di pagare la protezione di Cosa nostra.
Pubblicato il
12 Febbraio 2013, 06:23