28 Luglio 2019, 16:30
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Sergio Farrugia non si muoveva più tanto. Negli ultimi tempi scendeva dalla sua stanza, dietro il teatro Politeama di Palermo, e si sedeva al tavolino del bar, sempre lo stesso, riservato a lui. Lo chiamava il suo ufficio. Apriva un libro, leggeva e prendeva appunti. E fumava le sue sigarette sottili, finché non giungeva l’ora di pranzo. Ogni tanto veniva interrotto dalla visita di un amico. O da un mendicante che conosceva. Amava conversare almeno quanto amava la lettura, e accoglieva tutti con un sorriso ampio come il cielo, dietro la bella barba curata.
Potevi trascorrere ore in sua compagnia. Ascoltava e parlava. Non dava consigli. O almeno, non ne dava se non richiesti. Aveva il fascino degli uomini che hanno viaggiato molto, ma non se ne vantano. Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia palermitana, il padre militare, gli studi dai salesiani. Aveva molte ferite nel suo passato, ma nemmeno di quelle si vantava. A volte vi accennava e poi passava oltre, con un gesto della mano. Raccontava della moglie, che aveva sposato giovanissimo e da cui si era separato presto. Parlava con piacere dei due figli, che amava, anche se li vedeva raramente, lontani com’erano dalla Sicilia.
Sergio si era allontanato a lungo da Palermo. Non parlava volentieri dei motivi per cui se n’era andato. Mi raccontò una volta, una volta sola, di un incarico importante, che gli era stato affidato da un ente religioso, di soldi, molti, che aveva gestito, e di accuse infamanti, poi rivelatesi infondate. Uno dei giovani più promettenti del cattolicesimo cittadino, studente brillante e un po’ contestatario, cresciuto negli anni del cardinale Ruffini, si ritrovò solo. Non aveva ricevuto la solidarietà che si aspettava, da quelli del suo mondo. La sua separazione dalla chiesa cattolica iniziò allora.
Cominciò a viaggiare. Andò in Francia dall’Abbè Pierre, il prete partigiano e amico dei poveri, che aveva fondato la comunità Emmaus, un luogo di accoglienza per i senzatetto, dove affluivano giovani da tutta l’Europa, in cerca di Dio o di un senso per la propria vita. Sergio ritrovò se stesso. Lasciò tutte le sue ricchezze e aderì alla chiesa Valdese, una confessione cristiana il cui fondatore, Valdo di Lione, aveva predicato la fedeltà al vangelo poco prima di san Francesco, ma al contrario di lui era stato bollato come eretico. I suoi successori avrebbero aderito alla Riforma del XVI secolo.
Sergio parlava con nostalgia delle “valli”, come i valdesi chiamano, semplicemente, le valli del Piemonte occidentale. Qui una minoranza di cristiani aveva resistito a secoli di persecuzione, riuscendo anche a svolgere attività missionaria nel resto della penisola e oltre. Lo scrittore de Amicis definiva Torre Pelice, la cittadina al centro della valle dove si svolge il sinodo annuale dei Valdesi, la Ginevra italiana.
Sergio era un intellettuale anomalo, almeno nel panorama nazionale. Era mosso da un’inquietudine che lo portava continuamente in ricerca, fuori dalle istituzioni, verso un oltre che non sapeva definire. Forse era soprattutto l’esigenza instancabile di coniugare vita e fede, vita e idee. Aveva trascorso diversi anni a Napoli, lavorando in una comunità per tossicodipendenti, dove aveva imparato a rispondere al dolore degli altri, quello radicale, che ti porta ad invocare la morte. Perché l’ascolto non è un dono naturale, o non solo. Si affina nella compagnia dei poveri. E se impari ad ascoltare i poveri, sai ascoltare tutti, perché in fondo siamo tutti dei poveracci, con la paura di restare soli e la vergogna di dipendere da qualcuno.
Ho conosciuto Sergio negli anni Duemila, a Palermo. Era un predicatore della chiesa Valdese di via Spezio, che custodisce una storia bella e importante per la nostra città. Aveva oltre sessant’anni e non smetteva di cercare, di conoscere, di fare domande. Rimase affascinato dalla Comunità di Sant’Egidio. In quel movimento ecclesiale, nato nel ’68 a Roma, ritrovò quella sintesi tra spirituale e sociale che aveva cercato per tutta la sua esistenza. I santegidini coltivavano il gusto del dialogo ecumenico, che non si esaurisce nei convegni o nelle occasioni ufficiali, ma continua nella vita quotidiana, nell’amicizia e nel desiderio reciproco di conoscenza.
Sergio iniziò a svolgere il servizio con i poveri la sera, quando i volontari di Sant’Egidio distribuiscono la cena a coloro che vivono per strada e offrono il conforto di una parola e di un sorriso. Contribuì all’apertura di un centro di aiuto per le famiglie povere e iniziò lui stesso a distribuire alimenti nei locali di via Spezio. Predicava durante le preghiere serali della Comunità, alternandosi con i responsabili di Sant’Egidio, nella chiesa di Santa Lucia – Badia del Monte. Qualche volta, quando si dilungava un po’ troppo, dovevo fargli un cenno di accorciare, con discrezione, e ne ridevamo entrambi. In tanti amavamo ascoltare la sua lettura appassionata delle Scritture. Gli piaceva dire: Ho trovato casa. Rimaneva valdese, ma quella ferita di tanti anni prima si era rimarginata.
C’è un racconto nel Vangelo che mi ha sempre affascinato, dove si narra di una guarigione che Gesù compie, una delle tante. Si parla di un uomo cieco. Gesù si accosta a lui e compie dei gesti, toccando gli occhi del malato. Ma il miracolo non riesce subito, per così dire. All’inizio l’uomo non vede chiaramente. E dice: “Vedo uomini, perché vedo come degli alberi che camminano” (Vangelo di Marco, cap. 8, 24). Sergio era un uomo, perché era come un albero che camminava. Alla sua ombra hanno trovato riparo in tanti, poveri e ricchi, santi e letterati, vite maledette e gente in ricerca.
Mi piaceva fargli visita senza avvisare. Un giorno, quattro anni fa, dopo averlo cercato al bar, andai sotto casa. Davanti alla porta trovai Silvana, un’amica comune, preoccupata perché non rispondeva né al telefono, né al citofono. Salimmo di sopra e bussammo, inutilmente. Non sono molto robusto, ma non ci vollero grandi sforzi per aprire la vecchia porta. La piccola stanza, piena di libri, era come sempre. Sergio si trovava nel suo letto. Sul comodino, un quaderno, il salterio e una piccola croce. Insieme alla presidente del sinodo della chiesa, lo preparammo per la sepoltura. Su una delle pareti era appesa una mattonella di ceramica, su cui era incisa una frase di don Primo Mazzolari: Fai strada ai poveri, senza farti strada.
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28 Luglio 2019, 16:30