Le stragi di mafia del 1993 | Indagati Berlusconi e Dell’Utri

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31 Ottobre 2017, 09:05

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PALERMO – Era scontato. Si attendeva solo l’ufficialità della notizia. Che è arrivata ieri su Corriere.it. Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono indagati dalla Procura di Firenze per le stragi di mafia che colpirono Roma, il capoluogo toscano e Milano nel 1993. Come in passato i loro nomi sarebbero stati scritti nel registro degli indagati celandone la vera identità.

Il nuovo capitolo investigativo nasce dai dialoghi carcerari di Giuseppe Graviano, che tirava in ballo il Cavaliere. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia per questo è stata l’urgenza”, diceva Graviano al suo compagno di socialità, il camorrista Umberto Adinolfi, mentre passeggiava nel carcere di Ascoli Piceno. E aggiungeva: “Lui voleva scendere però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Insomma, sarebbe stato Belusconi a chiedere le stragi per spianarsi la carriera politica.

Le intercettazioni sono state acquisite al processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia e trasmesse alle Procure di Firenze e Caltanissetta. L’obbligatorietà dell’azione penale ha obbligato, appunto, a tornare indietro nel tempo. Non solo perché le stragi sono avvenute venticinque anni fa, ma anche perché i protagonisti della nuova indagine sotto accusa c’erano già finiti. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – erano stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Firenzeper concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili a Firenze, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri – allora indicati come Alfa e Beta – finirono sotto accusa della Procura di Caltanissetta per il presunto ruolo nella strage in cui furono massacrati Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Inchieste che si sono chiuse con un nulla di fatto.

Quella nissena, in particolare, fu archiviata su richiesta della stessa Procura (l’atto era firmato dal procuratore Tinebra e dai sostituti Giordano e Leopardi) che aveva avviato le indagini su input di Antonino Di Matteo, uno dei pm dell’accusa al processo sulla Trattativa. Il giudice che archiviò il caso non era stato tenero con Salvatore Cancemi, il pentito che aveva dato il là alle indagini: “All’inizio egli negò di essere uno dei componenti della commissione provinciale e negò pure di aver preso parte a queste due stragi; successivamente ha ammesso di aver concorso a quella di Capaci, continuando a negare qualsiasi responsabilità nell’attentato al dottore Borsellino. Solo nel 1996, e dopo che altri collaboratori lo avevano chiamato in causa, ha ammesso di aver preso parte pure alla strage di via D’Amelio”.

Cancemi ci mise tre anni – si era pentito, infatti, nell’estate del 1993 – per ammettere le sue colpe. Si giustificò invocando l’attenuante del travaglio psicologico, “che gli rendeva difficile d’un tratto uscire dalla mentalità di cosa nostra” e superare la “vergogna ad ammettere alcune cose”. Si paragonava, d’altra parte, a “una vite arrugginita che ci vuole del tempo per svitarla”. E sul Cavaliere? “La genericità e la mutevolezza delle sue dichiarazioni a carico di Berlusconi e Dell’Utri – scriveva il giudice – potrebbe infatti spiegarsi, anziché con il tentativo di offrire agli inquirenti una notizia in suo possesso ridimensionando il suo ruolo nella fase deliberativa della strage, con il diverso tentativo – mal riuscito – di introdurre elementi fantasiosi e non facilmente verificabili”.

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Dinanzi ai giudici della Corte di Assise di Caltanissetta che lo condannarono per la strage di via D’Amelio, Cancemi motivò il ritardo delle sue dichiarazioni perché “i discorsi” di Riina su “queste persone che lui aveva nelle mani” (e cioè Berlusconi e Dell’Utri), “che lui ci diceva che erano quelli che è un bene per cosa nostra” lo preoccupavano, lo frenavano e lo inducevano a pensare che se avesse fatto i nomi sarebbe potuto accadere “qualcosa di grosso”. La stessa Corte di Assise disse, però, che la storia della paura era una bugia visto che Cancemi “prima ancora di confessare la sua partecipazione alla strage, aveva già indicato delle circostanze che avrebbe dovuto tacere se questa fosse stata l’effettiva motivazione del riserbo. Egli infatti già in relazione alla strage di Capaci aveva dichiarato di aver appreso da Ganci Raffaele, mentre si recava in auto con lui presso la villetta di Capaci, che il Riina aveva incontrato persone importanti”.

Ora la novità è rappresentata dalle migliaia di pagine di trascrizioni depositate nel processo palermitano. Graviano l’anno scorso diceva: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi, lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. Ed ancora: “Trent’anni fa, venticinque anni fa, mi sono seduto con te, giusto? Ti ho portato benessere. Poi mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi. Per cosa? Per i soldi, perché ti rimangono i soldi…”

Prima ancora di conoscere il peso e l’utilità delle intercettazioni del capomafia nel processo Trattativa ecco l’ipotesi che possano servire altrove contro Belusconi e Dell’Utri. A Palermo accusa e difesa si scontrano sulle trascrizioni. E poi c’è il dubbio che Graviano avesse capito di essere intercettato e recitasse in favore di telecamera.

Il 2 febbraio 2016, infatti, il boss stragista avvertiva il suo compagno di passeggiata che era stato montato un nuovo sistema di sorveglianza: “Sono degli spioni… forse non mi sono spiegato, un mese fa hanno messo queste del primo passeggio, mentre quelle degli altri due passeggi non erano pronte”.

Eppure Graviano, nonostante dalle sue parole emergesse la certezza che lo stessero intercettando, nei dodici mesi successivi, fino allo scorso aprile, ha consegnato agli investigatori trentadue lunghe registrazioni riversate nel processo. Migliaia e migliaia di pagine.

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31 Ottobre 2017, 09:05

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