"Sua Altezza Palermo" |Gli scatti di Pucci Scafidi - Live Sicilia

“Sua Altezza Palermo” |Gli scatti di Pucci Scafidi

Uno degli scatti del libro "Sua Altezza Palermo" di Pucci Scafidi edito da Novantacento

In anteprima il racconto del direttore di Panorama Giorgio Mulè contenuto nel volume. FOTOGALLERY

Edizioni Novantacento
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11 min di lettura

PALERMO – Sua Altezza Palermo. Questo il titolo del libro-racconto per immagini (clicca qui per guardare la fotogallery di alcuni scatti) su Palermo che si presenta giovedì 30 novembre alle 19.30 a Palazzo Branciforte. Il volume del fotografo Pucci Scafidi sarà presentato dal presidente della “Fondazione Sicilia”, Raffaele Bonsignore. Il libro – “Sua Altezza Palermo” – è introdotto dall’appassionato prologo di Lorenzo Matassa e corredato dai testi inediti di Antonio Calabrò (direttore della “Fondazione Pirelli”), Felice Cavallaro (inviato speciale del “Corriere della Sera”), Gaetano Savatteri (scrittore) e Giorgio Mulè (direttore di “Panorama”). L’elegante volume, edito dalla “Novantacento”, frutto della selezione di più di duemila immagini catturate in più di un anno attraverso elicottero e drone, è stato stampato su carta nobile nel formato 24×32. Nelle 240 pagine, 115 immagini a colori ed in bianco e nero, un originale visione di Palermo, maestosa, onirica e materica, svelata in uno sguardo sospeso e senza tempo. In occasione della presentazione di giovedì 30 novembre, interverranno tutti gli autori e…., un’occasione per vivere la grande bellezza della nostra città…

Pubblichiamo in anteprima il racconto su Vicolo Paterna del direttore di Panorama Giorgio Mulè.

A Vicolo Paterna non si sentivano le campane. E anche i rumori del traffico di corso Vittorio Emanuele, a dispetto del grande bordello che regnava in città, non riuscivano ad arrivare in quell’alveare di case che anche se divise da una strada larga due metri parevano abbracciarsi tanto stavano appiccicate.

Erano palazzi antichi, spesso secolari e assai rattoppati. Sembravano alti, altissimi. Ma non era così, solo che la prospettiva del pedone ingannava. A ben pensarci forse erano storti, potrei giurare che fossero inclinati: perché uno guardava verso l’alto e mano a mano che lo sguardo acchianava arrampicandosi, il cielo si stringeva e si stringeva sempre di più fino a diventare fessura. Comunque: anche senza i rintocchi delle campane c’era un momento in cui a Vicolo Paterna chiunque – e con questo chiunque intendo dire proprio cù è-gghiè ivi inclusi sordi, ciechi o percettori di pensione di invalidità più o meno legittima – prendeva coscienza che era arrivato il momento di alzarsi dal letto o in alternativa decidere che cosa fare di quella giornata. E questo valeva in ogni condizione metereologica: bello o brutto, estate o inverno, caldo o freddo.

Respirare. Normalmente. Non potevi scappare.

Se stavi a Vicolo Paterna, verso le dieci del mattino le sinapsi si scatenavano e ti entravano nel cervello direttamente dalle narici.

Non pensate a quei respiri profondi che il medico chiede quando visita («Mi faccia un bel respiro…»). Qui si parla di una respirata normale, niente di straordinario. Chi può resistere al bisogno dell’aria? Nessuno. E infatti l’aria si incaricava di essere più precisa dell’orologio più preciso secondo quanto previsto dall’orologio in uso al palermitano. Che non segna mai l’ora esatta ma al più indica «verso». Così «verso le dieci», e a Vicolo Paterna non se ne fotteva nessuno se erano le dieci e dieci o le dieci meno cinque, arrivava la zaffata.

Brodo.

Odore di brodo di carne. Immancabilmente.

Prima leggero, poi mano a mano che bolliva e si «stringeva» diventava sempre più intenso.

Negli anni Ottanta del secolo scorso il brodo lo preparava Salvatore Catanese, ovviamente Totò per tutti. E prima di Totò l’alchimista del brodo era il padre Antonino e prima di lui un altro Salvatore ovviamente detto Totò. E quando il primo Totò si cimentava nella preparazione del brodo il secolo ventesimo neanche si era affacciato alla storia del mondo. Sempre lì, sempre a Vicolo Paterna angolo Corso Vittorio Emanuele verso il confine sud della Vuccirìa.

Siccome i palermitani sono portati per natura a ingigantire le cose, prova ne è l’uso smodato di superlativi assoluti in ogni circostanza, il primo Totò si guadagnò il titolo di «Dottore» honoris causa. Ovviamente «Dottore del brodo», in quanto all’epoca di un’epidemia ai primi del ‘900 le sue tazze avevano un effetto benefico (Ovviamente se chiederete conferma in loco vi verrà risposto «Benefico? Ma quaaale? Mi-ra-co-lo-so…!») su chi le mandava giù. In breve la «Casa del Brodo» fu per tutti e per sempre «il Dottore del Brodo».

Questa storia io la seppi negli anni Ottanta, verso la fine. Ero una matricola universitaria sotto copertura, nel senso che ero sì iscritto a Scienze Politiche ma in realtà tutte le mie energie erano dedicate al tentativo di fare il giornalista. Abitavo in Vicolo Paterna in una «comune» di studenti fuori sede esattamente due piani sopra il «Dottore» e la vita senza dubbio un po’ lagnusa dell’epoca io me la ricordo così: scandita da quel brodo in pentola del quale ti sembrava di avvertire il calore e quasi pensavi potesse farti da coperta nelle giornate d’inverno. Confesso di non essere mai stato fisicamente a pranzo dal «Dottore», mi è sempre sembrato inutile: non aveva segreti per me, sapevo a memoria il menù e ogni variazione giorno per giorno. Bastava chiudere gli occhi e capivi se, oltre al brodo ça va sans dire, c’era anche il lesso con le patate o la lingua. E siccome tutto questo era già chiaro «verso le dieci», capite bene che non vedevo l’ora di contaminare l’olfatto con altro. Non era difficile.

La Vucciria non tradiva: era una garanzia, un gran bazar di sapori.

Si poteva scegliere a Nord o Sud rispetto a vicolo Paterna per trovare requie olfattiva: «salire» verso via Roma o «scendere» verso piazza Marina.

In direzione di via Roma, in realtà, la pace olfattiva veniva raggiunta appena doppiata la panetteria di Mimì in via Pannieri, giusto prima dell’incrocio con via Roma. E questo perché il panificio era cinto d’assedio da due eserciti di prelibatezze palermitane: un panellaro e una rosticceria. Ed entrambi, ben prima che a San Domenico suonassero la mezza, erano pronti a respingere qualsiasi attacco di fame con effluvi inebrianti che ne costituivano le avanguardie del gusto e di un piacere accessibile: melanzane fritte o anelletti al forno, cazzilli o panelle, arancine o calzoni. Era assolutamente normale mangiare un’arancina quando ancora le lancette non avevano superato le undici del mattino. E mi ha sempre sorpreso la sorpresa di chi si sorprende. Così, a quanti eccepiscono come non sia «normale» gustare un’arancina al prosciutto appena svegli rispondo: ma perché, è «normale» ingollare come fanno gli americani il cappuccino dopo l’agnello al forno? Dunque: a me l’arancina piaceva mangiarla in orari ritenuti anormali. Sento ancora tra i denti i resti incagliati dell’impanatura mentre «salgo», superato l’incrocio con via Roma, verso piazza Bologni con il suo monumentale palazzo Alliata di Villafranca dove c’era un pezzo della facoltà di Scienze Politiche e passo in rassegna le dimore della nobiltà palermitana su corso Vittorio Emanuele.

Rispetto a trent’anni fa oggi è molto più piacevole il passaggio dai Quattro Canti, privati un po’ del baccano del traffico e ripuliti dalle scorie del tempo. Se si guarda in alto si troverà la statua di una Santa che con Agata, Ninfa e Cristina precedette Santa Rosalia, la santuzza, come patrona della città. Per sapere chi è mi piace però tornare indietro a vicolo Paterna.

A Sud del Dottore del Brodo c’era sempre il rifugio sicuro di nonna Oliva a via dei Chiavettieri. Che non era un locale ma una nonna in carne e ossa il cui nipote era un mio caro amico d’infanzia. Da Nonna Oliva il passaggio era comunque obbligato alla vigilia dei (rari) esami sostenuti affinché lei invocasse sulla traballante preparazione la protezione di Santo Spiridione, del quale seppi la vera identità solo in età matura in quanto a lungo lo conobbi solo come «Santu Spirugghiuni» e dunque il Santo che «spirugghiava» cioè risolveva i problemi.

Via dei Chiavettieri appartiene a quel dedalo ordinato di strade che sono l’anima della Vucciria. Si chiama così perché oltre un secolo fa era la strada dove c’era una concentrazione di botteghe di fabbricanti di chiavi. Molte delle vie intorno hanno questa caratteristica, prendono il nome dagli artigiani che le popolavano come via dei Tintori o via Cassari (conciatori di scarpe) fino a via dell’Argenteria legato ovviamente a orafi e argentieri.

Via dell’Argenteria era la strada dove c’era il tempio delle olive. Una chiesa per me, con rispetto parlando. Potevo rimanere come ammammaluccato anche dieci minuti in contemplazione di una bancarella che a chiamarla così però non rende giustizia a quella visione celeste. Era infatti come trovarsi in un anfiteatro, con le olive disposte in ipotetici scaloni che digradavano dall’alto verso il basso: erano sistemate a piramide in vassoi, il putiaro ne esponeva anche quaranta diversi. E che putiaro: un damerino era. I capelli perfettamente pettinati, la barba precisa e che ci fosse a Palermo l’africa o la siberia indossava sempre un camice blu senza una macchia o un alone. E già questa era un’arte.

Di quella strada, così come nelle altre dove c’era il mercato, mi rimarrà sempre impressa l’illuminazione. Era fatta da grandi lampadine appese a un filo che attraversavano la via ed erano sospese a meno di un metro dalla merce: sembrava una fiera perenne. Che fosse mezzogiorno o sera, che piovesse o ci fosse il sole accecante non importava: le lampadine stavano sempre accese e questo mi metteva sempre di buon’umore. E anche le balate, cioè i lastroni di pietra che lastricavano le vie del mercato, avevano una particolarità: non erano mai asciutte, o meglio lo erano solo la domenica quando le botteghe erano chiuse. Dicono che fosse così perché pescherie e fruttivendoli bagnavano la merce in continuazione per dare la percezione ai clienti che fosse freschissima: «Vivo è! Vivo è! Vi-vo!!» gridavano ad esempio mentre tentavano la rianimazione dei polipi agitandoli come fossero pupi a teatro.

Ma sì, quel mercato era un gigantesco teatro a ben pensarci. Sulle olive l’effetto della luce era meraviglioso perché si rifletteva sulla buccia e ne esaltava il colore. Ad eccezione dell’enclave siciliana, a ogni latitudine della terra si è certi che in natura esistano solo due colori di olive: verdi e nere. Questo perché non si è avuta l’esperienza di un passaggio dal putiaro di via dell’Argenteria dove, tanto per cominciare, nessuno si sognava di chiedere «olive verdi» perché nessuno gliele avrebbe date. A Palermo le olive verdi si chiamano bianche anche se sono indubitabilmente verdi. Penso che il ricorso al bianco discenda dal fatto che raramente si comprano le olive al naturale. Certamente non in via dell’Argenteria. Perché acquistarle come la natura le consegnava pareva piatusu, faceva pena. E dunque le olive, che partivano «bianche», perdevano la loro identità da puvureddi e si nobilitavano perché venivano mischiate con il sedano, il prezzemolo, l’origano, la menta, il finocchietto selvatico, il rosmarino, il peperoncino, le carote, la «giardiniera». E anche le nere si coloravano con il sale o con la buccia dell’arancia e di limone e c’era ovviamente tutta la gamma dei passuluni, cioè delle olive appassite: fritte o ‘ncaminati (al forno), schitte, cunzate, arrizzate e fino alle scacciate, cioè senza noccioli destinate a chi – come diceva il Damerino travestito da rivenditore – era tutto «tischi toschi» cioè con la puzza sotto al naso in quanto si schifiava a sputare l’osso.

Tutta questa dissertazione è per farvi capire che a Palermo c’è una vera devozione per le olive. La stessa Nonna Oliva ne è una prova evidente. Si chiamava così in onore di una martire palermitana del quinto secolo dopo Cristo, Oliva appunto, morta quindicenne a Tunisi che fu anche patrona della città nel Medioevo prima di cedere l’onore della protezione della città a Santa Rosalia come raccontavo poco fa. Peraltro una statua della Santa è visibile, oltre che ai Quattro Canti, anche in Cattedrale ed è facilmente riconoscibile, oltre che per l’iscrizione nel basamento, anche perché il piede sinistro poggia sulla testa di un infedele (absit iniuria verbis) col turbante e nelle mani tiene due ramoscelli d’ulivo.

Via dei Chiavettieri, oggi, ha un’altra anima. Alla fine del XX secolo c’era una sorta di coprifuoco non dichiarato dopo il tramonto. Non per problemi di sicurezza, ma proprio perché non c’era niente da fare. Dopo vent’anni è un altro mondo. Sotto e davanti la casa che fu di Nonna Oliva sono sorti locali notturni, uno accanto all’altro. È uno dei centri della movida palermitana. Nei fine settimana è anche difficile farsi largo tra centinaia di persone che bevono e schiticchiano. Danno l’impressione di essere molto «tischi toschi», sarà perché ogni tanto ci si imbatte in turisti americani che con la loro birra si dicono e si ripetono quanto è amazing il posto.

L’ho trovata incredibilmente viva e piena di energia positiva. Mi ha fatto piacere constatare che non sono stati commessi abusi all’impianto viario: le balate sono rimaste le stesse ancorché asciuttissime, perfino alcuni lampioncini al muro conservano il sapore dolce di un’epoca passata. Insomma, l’anima palermitana è intatta e per i nostalgici basta guardarla dall’alto per avere l’impressione che il tempo si sia fermato. Tanto state certi che anche vista da lassù, puntuale «verso le dieci», arriverà la zaffata del Dottore del Brodo.


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