Suicidio assistito, caso Giordano: per i pm "fu influenzata" - Live Sicilia

Suicidio assistito, caso Giordano: per i pm “fu influenzata”

Lunedì nelle aule di piazza Verga si tornerà a parlare della morte della 47enne paternese Alessandra Giordano

CATANIA – È morta il 27 marzo 2019 a Forch, un piccolo paese nel cantone di Zurigo, in Svizzera. Ma, quattro anni dopo, di lei si continua a parlare nelle aule del tribunale di Catania. Alessandra Giordano, paternese di 47 anni, ha fatto ricorso al suicidio assistito nella struttura dell’associazione Dignitas, la stessa dove ha deciso di morire dj Fabo. Ma per la sua famiglia, che dopo il decesso della donna ha presentato un esposto alla procura di Catania, si è uccisa perché istigata. Giacché la malattia di cui Giordano soffriva, la sindrome di Eagle, non sarebbe stata grave al punto da essere incompatibile con la vita.

Con l’accusa di istigazione al suicidio è stato processato Emilio Coveri, presidente dell’associazione Exit Italia, che si occupa di promozione del diritto all’eutanasia. In primo grado, Coveri è stato assolto: il fatto non sussiste, ha scritto nero su bianco la giudice per l’udienza preliminare il 10 novembre 2021. I magistrati etnei Ignazio Fonzo e Angelo Brugaletta, però, hanno fatto ricorso in Appello. E domani, lunedì 5 giugno, sarà il turno della discussione della Procura generale.

Secondo l’accusa, Coveri avrebbe “rafforzato” l’intento suicidiario di Alessandra Giordano. La donna, cioè, avrebbe preso la sua decisione definitiva solo dopo avere parlato, seppure a distanza, con Coveri. Che quindi l’avrebbe spinta a togliersi la vita. E lo avrebbe fatto con cinque sms e 31 conversazioni telefoniche, “delle quali ben 25 su chiamata della prima verso l’utenza del secondo”, si legge nella sentenza di primo grado. Per la giudice Marina Rizza, solo questo non è sufficiente per influire sull’esistenza di una persona al punto da farle decidere di interromperla.

Perché, scrive la gup, messaggi e chiamate non sono sufficienti a condizionare “il percorso di autodeterminazione che conduce un individuo dotato di ordinaria capacità di discernimento ad addivenire a una scelta dirompente ed estrema quale quella di morire”. Del resto, scrive ancora Rizza, non sarebbero noti “elementi sintomatici di una condizione psicologica di Alessandra Giordano tale da renderla influenzabile”. Stava male, sì, anche psicologicamente, ma era lucida. E la sua facoltà di autodeterminarsi è certificata anche da due consulenze psichiatriche disposte dall’ufficio del pubblico ministero.

Una prospettiva con cui gli uffici di piazza Verga, che avevano chiesto la condanna di Coveri a tre anni e quattro mesi di reclusione, non concordano affatto. L’uomo avrebbe “coartato” le “iniziali resistenze di Giordano”. “Non solo tranquillizzandola, facendosela amica, consigliandola circa le modalità operative e le procedure necessarie per farsi accogliere la domanda alla clinica Dignitas […], ma altresì argomentando con la stessa circa la correttezza, anche etica, della scelta di ricorrere al suicidio assistito, invitandola a non tenere conto delle resistenze di amici e parenti”. Il presidente di Exit Italia avrebbe operato una “lenta ma costante e fortemente incisiva opera di persuasione a compiere la scelta di ricorrere al suicidio assistito”.

Che lei fosse indecisa, scrivono i pm nell’Appello, non è nemmeno necessario intuirlo: lo scrive lo stesso Coveri nel bollettino delle attività dell’associazione Exit. Raccontando del caso della 47enne di Paternò, Coveri dice: “Ogni tanto mette davanti il fatto che lei è credente e io replico che anche mia moglie è cattolica, credente, anche un po’ troppo “leccabalaustre”, ma entrambi ci si rispetta perché l’eutanasia significa decidere per sé stessi e non per altri! (…) La sua famiglia non è d’accordo ma forse riuscirà a convincerli. Forse? Mi dice che non vuol dire niente che lei sia cattolica, ciò che importa ora è che lei non ne può più!… E allora?, le replico io. È titubante, ma la sofferenza è più forte della sua fede“.

Parlandole di fede e famiglia, Coveri – per i magistrati catanesi – avrebbe “agito senz’altro sulla psiche della donna”, costruendo un rapporto di “subdola fiducia”. In altri termini, si sarebbe trattato di una manipolazione nei confronti di una persona che, per via delle sofferenze dovute alla sua malattia, sarebbe stata “più vulnerabile e più permeabile a pressioni esterne“.

Sono queste le argomentazioni che entreranno domani nella discussione della Procura generale, che chiederà in Appello la condanna di Emilio Coveri dell’associazione Exit Italia. Tocca stavolta alle aule del tribunale di Catania, quindi, ascoltare un’altra parte del dibattito ormai pluriennale sul suicidio assistito e sull’eutanasia.


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