15 Novembre 2021, 11:18
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CATANIA – La sua convinzione è che ad accusarlo sia stato Concetto Bonaccorsi, u carateddu. Il boss mafioso catanese diversi anni fa, infatti, ha deciso di collaborare con la giustizia. Rosario Guzzetta, rinviato a giudizio per l’omicidio di Rosario Cinturino avvenuto nel 1990, lo dice mentre è intercettato. Quelle conversazioni sono uno dei mosaici che hanno permesso di risolvere un ‘cold case’ dopo trent’anni, o almeno di portare a processo un sospettato. La svolta dell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dal sostituto Alessandra Russo, è arrivata nel corso dell’archiviazione di vecchi di dati di vecchi fascicoli della polizia scientifica da cui è emerso che sul luogo dell’omicidio erano stati repertati anche “due frammenti di impronte papillari”.
Il corpo del giovane Rosario, all’epoca appena ventiduenne, è stato trovato all’interno di una Fiat Panda – come si vede dalle immagini pubblicate- in via Crocifisso a Catania, a pochi passi da via Acquicella. Quell’auto ha un’impronta che ha portato a riaprire il caso rimasto nel cassetto per troppo tempo. Un’impronta corrispondeva al “pollice della mano sinistra di Rosario Guzzetta, che era stato ‘fotosegnalato’ nel dicembre del 1984 per rapina”. L’indagato però è stato detenuto dal 1986 al 1993. Ma allora come è possibile? La Squadra Mobile di Catania ha scoperto che Guzzetta ha avuto un permesso premio tra il 15 e il 30 marzo del 1990. Il delitto è avvenuto, si legge negli atti, tra le 16 e le 18 del 28 marzo 1990. E quindi, quel giorno, l’imputato non era certo al carcere di Nicosia dove stava scontando la condanna.
Ma poi è lui stesso intercettato, a confermare di aver visto Rosario Cinturino quel giorno e di essere salito in quella Panda. Parlando con una serie di persone, il discorso poi finisce proprio sulle impronte digitali.
“Non lo so quello che hanno trovato nell’auto… no perché io nell’auto con questo (ndr Rosario Cinturino) ci sono salito […]Ci sono salito! Quando ci siamo incontrati, ci siamo baciati ci siamo abbracciati ci siamo andati a prendere il caffè assieme… ora non mi ricordo se ho giudato io l’auto o se l’ha guidata lui. […] E siccome fu trent’anni, trent’anni fa… tu le impronte digitali nemmeno le cavavi (ndr non ti preoccupavi di lasciarle) […] A te (in terza persona, ndr) non t’interessava delle impronte digitali… perché non sapevo che potevano uscire domani le impronte digitali…”
Il carico probatorio portato dalla Procura ha convinto il gup Carlo Cannella che ha rinviato a giudizio Rosario Guzzetta per l’omicidio. Il giovane Cinturino sarebbe stato strangolato e lasciato abbandonato in auto. Dietro il movente, per l’accusa, un debito di droga non pagato dalla vittima. Il prossimo febbraio, Guzzetta dovrà presentarsi davanti alla Corte d’Assise di Catania. Sarà un lungo dibattimento che cercherà di portare verità in un delitto irrisolto per tre decenni.
La famiglia di Rosario Cinturino ha deciso di costituirsi parte civile nel processo. “Quale difensore dei genitori del ragazzo, Giuseppa Bonaccorsi e Giovanni Cinturino, mi sento in dovere di rappresentare un pensiero che spero sia da monito per tutti i cittadini, commenta l’avvocato Salvatore Pietro Paolo Puglisi. “L’udienza dello scorso 11 novembre, a differenza di altre, ha avuto un significato particolare, perché ha rappresentato, inevitabilmente, una sorta di riavvicinamento tra lo Stato e i cittadini, a mio modesto avviso. Ho personalmente, in sede di discussione, rappresentato alcuni punti fondamentali: oltre alle mere questioni giuridiche e fattuali, evidenti e che hanno indotto il giudice a disporre il rinvio a giudizio, ciò che rimane sempre è il dolore dei genitori e se a questo dolore noi avvocati possiamo cercare di dare un aiuto, la nostra missione sociale può certamente ritenersi compiuta. I miei assistiti, ormai anziani, hanno il diritto si sapere, attraverso una attenta ricostruzione dei fatti che avverrà in sede di istruttoria dibattimentale. Ho rappresentato in aula, sostanzialmente, nell’evidenza dei fatti e raggruppando i punti salienti delle intercettazioni telefoniche della Procura, come sussistessero tutti gli elementi – commenta ancora – per sostenere l’accusa in giudizio, permettendo ai miei assistiti, genitori della vittima, un giorno non lontano, di poter comprendere in che modalità e soprattutto chi, ha cagionato la morte del proprio figlio, ad appena 22 anni. Credo che tutti i cittadini debbano comprendere che, nonostante sia lenta, la giustizia in Italia esiste e lo scorso 11 novembre, dopo 31 anni, ne abbiamo avuto prova”, conclude l’avvocato Puglisi.
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15 Novembre 2021, 11:18