Tanti scandali, mai dimissioni | Angelino resta sempre in piedi

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13 Luglio 2016, 06:00

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PALERMO – Oscilla un po’ a destra, un po’ a sinistra. In avanti e indietro. Ma non cade mai. Come i colorati misirizzi, giocattoli dalla base ovoidale e pesante, sempre dritti, al termine di ogni spinta. Il ministro dell’Interno Alfano non cade mai. Nonostante questi anni al governo con Letta e Renzi siano stati assai turbolenti.

Non va mai per terra, Angelino sempre in piedi, per parodiare un pupazzo regalato anni addietro dalla Galbani. Si chiamava “Ercolino” quel giocattolo, e aveva le forme di Paolo Panelli. Ma in qualche modo, l’esperienza nei governi Pd di Alfano rimanda un po’ alle dodici mitiche fatiche.

Non ha intenzione di dimettersi, questo è sicuro. Nonostante le inchieste dalle quali è saltato fuori il suo nome. Niente di penalmente rilevante. Ma quanto basta per allungare ombre sul ministro il cui fratello è stato assunto in società legate a Poste Italiane, con stipendio da 160 mila euro annuo. Mente il padre di Angelino, stando alle intercettazioni di una assistente del faccendiere Raffaele Pizza, avrebbe fatto piovere sull’azienda un’ottantina di curriculum. “Barbarie”, ha protestato Angelino, facendo riferimento alle condizioni di salute del padre.

Al di là delle responsabilità, una cosa è certa. Angelino tiene botta. Nonostante attorno si sfaldi tutto. A cominciare dal suo “Nuovo centrodestra”. Nuovo e già costretto dagli insuccessi elettorali al ritocchino dell’Alleanza popolare, e capace, nonostante le dimensioni “Xs”, di dividersi persino. Con una fronda di senatori a chiedere di abbandonare il governo Renzi. E un gruppone di siciliani, capeggiati da quelli che fanno capo a Renato Schifani, a chiedere anche di lasciare il governo Crocetta.

Ma intanto, Angelino è sia con Renzi che con Crocetta. E figuriamoci. Il rapporto poltrone/voti, per Ncd, è un prodigio dell’algebra. Nonostante quelle stesse poltrone, al capo del Viminale, qualche problema l’hanno pure portato. È il caso dell’inchiesta sul Cara di Mineo, che ha coinvolto uno dei politici più vicini ad Alfano, cioè il sottosegretario Giuseppe Castiglione. O come l’inchiesta che ha coinvolto l’altro sottosegretario siciliano Simona Vicari sulle visite in carcere all’ex presidente della Regione Totò Cuffaro.

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Ma niente scuote Angelino. Baluardo di un potere che non si fonda sul consenso. E che assorbe con relativa tranquillità anche le dimissioni di un ministro importante come Maurizio Lupi, la cui ora è scattata per colpa di un Rolex. Crolla, insomma, pezzo dopo pezzo, il mondo attorno ad Alfano. Ma i massi non lo sfiorano nemmeno.

Fin dall’inizio della sua parentesi, nel 2013, quando esplose il caso di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov, prelevata nella sua casa di Roma dalle nostre forze dell’ordine, alla fine di maggio del 2013. Ma Alfano “non sapeva”. Poco dopo, le critiche arriveranno anche dai sindacati di polizia, a causa dei ritardi nella nomina del successore del capo della Polizia di Stato Antonio Manganelli: due mesi di pericoloso “vuoto”, prima della nomina di Alessandro Pansa.

Ma Angelino cade sempre in piedi. Anche quando viene attaccato direttamente da una procura. Quella di Bergamo, per la precisione. E la colpa di Alfano è tutta in un tweet, quello col quale il Ministro, bruciando forze dell’ordine e magistrati, diede notizia dell’arresto dell’allora ancora presunto assassino della quattordicenne Yara Gambirasio. Per Alfano, Massimo Bossetti però era già un assassino. Altro che presunzione di innocenza. “Era nostra intenzione – la bacchettata in quelle ore del procuratore Francesco Dettori – mantenere il massimo riserbo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale esiste la presunzione di innocenza”.

Parenti, affari, e qualche gaffe. Non manca nulla nella collezione di flop e piccoli e grandi scandalicchi di Alfano. Nemmeno un “must” come la casa. Quella, in particolare, in cui vive Alfano nel centro di Roma e di proprietà del costruttore Salvatore Ligresti, finito in carcere nell’inchiesta Unipol Fonsai. Ma anche lì, Alfano tiene botta. Come quelle squadre di calcio esperte nel catenaccio. Non fanno gioco, subiscono quello degli avversari, ma tengono la porta inviolata. Una metafora che “cozza” a dire il vero con qualche episodio che lega il ministro al calcio. È il caso ad esempio della finale di Coppa Italia del 2014 tra Fiorentina e Napoli “ostaggio” di Genny a’Carogna e degli stessi ultrà che che nelle ore precedenti erano stati coinvolti nella rissa che portò all’uccisione del tifoso Ciro Esposito per le strade di Roma. La stessa città che fu devastata dai tifosi del Feyenoord in occasione di una sfida con i giallorossi in Champions League. Ma Alfano resse, anche lì. Il piglio duro di chi afferma che “lo Stato è più forte” una volta di questo e una volta di quello. La poltrona traballa ma regge. Mentre il suo Ncd sbanda paurosamente, tra i decimali ai quali è stato ridotto, nonostante i posti di comando dei suoi generali. Persino qui in Sicilia, dove il movimento ha perso sempre, anche nelle ultime amministrative, e persino nei feudi dell’Agrigentino. La terra che fu granaio della Dc che ha prodotto, col tramite decisivo del Cavaliere e dei suoi ufficiali siciliani, da Dell’Utri a Micciché, il misirizzi Angelino sempre in piedi.

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13 Luglio 2016, 06:00

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